Graglia, il sogno di una “Novella Gerusalemme del Piemonte” sui monti biellesi
GRAGLIA. Quando si parla di Sacri Monti del Piemonte, si fa riferimento ai sette complessi architettonici appartenenti a questa tipologia devozionale che furono portati a compimento nell’arco di diversi secoli, tra la fine del Quattrocento e l’Ottocento, ma si omette di considerare quelli “minori” che, interrotti in una fase iniziale o comunque non ultimati, hanno lasciato di sé solo qualche vestigia più o meno evidente. A questo gruppo si riconduce il caso di Graglia, località delle montagne biellesi, situata sul versante destro della valle Elvo, che ospita, a 812 metri d’altitudine, il santuario dedicato alla Madonna di Loreto, il secondo del territorio per importanza e dimensioni dopo quello più famoso di Oropa.
E’ il 1615 quando don Nicolao Velotti, sacerdote vercellese, viene nominato parroco della comunità di Graglia. Reduce da un viaggio in Terra Santa, il neo parroco maturò l’idea di far costruire sul fianco della montagna sovrastante il paese un complesso sacro composto da ben cento cappelle in cui si riproducessero, con il supporto visivo di statue a grandezza naturale, altrettante scene di storia biblica, a partire da Adamo e dalla Genesi fino alla Passione di Cristo e alla sua Ascensione al Cielo. Il progetto, mirante a riproporre sulla montagna di Graglia una “Novella Gerusalemme o sia Palestina del Piemonte” ad imitazione di quanto già realizzato per iniziativa del frate minore osservante Bernardino Caimi a partire da fine Quattrocento sul monte di Varallo Sesia, era stato consacrato, per volere del Velotti, al grande riformatore San Carlo Borromeo, uno dei principali riferimenti dell’orizzonte devozionale del ducato di Savoia.
Infatti, come risulta da una raffigurazione allegata alle “Dedicatorie”, operetta devozionale redatta da don Nicolao Velotti e stampata a Milano nel 1623, il punto apicale del pio itinerario che doveva essere tracciato sulla montagna di Graglia, dipanandosi tra le cento cappelle, si trovava in cima al colle dedicato proprio a San Carlo Borromeo, dove tutt’oggi sorge la chiesa di San Carlo, inglobante una delle cappelle effettivamente realizzate del Sacro Monte di Graglia. Come annota il ricercatore Paolo Cozzo nel suo “La geografia celeste dei duchi di Savoia”, lo spirito che animava il sacerdote, di formazione gesuitica, era impregnato di quella “cultura dei Sacri Monti” che consisteva in una “catechesi totale in cui il pellegrino non solo apprende, ma vive e rivive la verità e la storia cristiana”.
L’idea del Sacro Monte come specifica forma santuariale, di cui ammiriamo l’archetipo nella Nuova Gerusalemme di Varallo Sesia, aveva preso forma tra fine Quattrocento e primo Cinquecento dall’intento missionario e pedagogico di offrire al fedele europeo, impossibilitato a recarsi in Terra Santa per la pericolosità del viaggio, la concreta possibilità di “vedere” i luoghi in cui s’era svolta la vita di Cristo. Questi vennero riprodotti, in una prima fase, con fedeltà topomimetica, cioè ponendo particolare attenzione alle caratteristiche del terreno e alla distribuzione degli spazi, in maniera tale da richiamare nel modo più fedele possibile l’originale (ad esempio la rotonda del Santo Sepolcro o la grotta di Betlemme), e, successivamente, attribuendo invece maggior valore alla corrispondenza cronologico-narrativa dei fatti, narrati al pellegrino in modo realistico ricorrendo alla statuaria a grandezza naturale e a stratagemmi come l’uso di barbe e capelli veri (Varallo) e con la finalità principale di ottenere l’immedesimazione emotiva dell’osservatore nelle scene riproposte.
Dopo il Concilio di Trento, il Sacro Monte assunse anche il significato di un presidio della Cattolicità contro il propagarsi delle idee ereticali, provenienti in particolare dal nord Europa: da questa nuova funzione, che si sovrappone a quella originaria, derivano le immagini mutuate dal linguaggio militare e adoperate per descrivere questi spazi sacri, presentati come “sentinelle religiose” o “cittadelle della fede”, e la distribuzione geografica di questi complessi architettonici, che appaiono tra Cinque e Seicento concentrati lungo la dorsale alpina, vista idealmente come una barriera a difesa della Cattolicità (Paolo Cozzo).
Non sono però da trascurare, nell’analisi del fenomeno devozionale dei Sacri Monti, gli aspetti legati al rafforzamento del prestigio dinastico, cui ambivano i sovrani che ne finanziarono o ne sostennero l’esecuzione e l’ampliamento, e al contesto geo-politico in cui s’inserivano le vicende costruttive dei singoli complessi sacri. Non è un caso che il sacerdote Nicolao Velotti, per la realizzazione della sua “Palestina del Piemonte”, abbia cercato di ricorrere al supporto dei duchi di Savoia, esaltando all’interno delle Dedicatorie, l’opera devozionale in cui era presentato il progetto del Sacro Monte di Graglia, i meriti della dinastia sabauda: ne passava in rassegna, infatti, le figure celesti, come il beato Amedeo IX di Savoia, contitolare, insieme con il vescovo d’Aosta san Grato, della cappella di San Carlo, culmine dell’itinerario sacro, le figure ecclesiastiche, come il principe-cardinale Maurizio di Savoia, e le figure temporali, tra cui spicca il devoto duca Carlo Emanuele I.
Nicolao Velotti, l’ideatore della “Novella Gerusalemme del Piemonte” sulla montagna di Graglia, terminò anzitempo la sua esperienza terrena, morendo nel 1626, senza aver ottenuto dal duca di Savoia il sostegno sperato per concretizzare il suo sogno. Il cantiere, pur avviato, si fermò a una fase preliminare e fu allora che una delle cappelle già costruite, quella dedicata alla Santa Casa di Loreto sul colle della Divina Bontà, posizionata a metà strada dell’itinerario sacro, tra la cappella di Campra e il colle di San Carlo, si avviò a divenire il fulcro dell’impianto cultuale. A questo punto i Savoia intuirono le potenzialità religiose e politiche del luogo, legate al potenziamento del culto della Madonna di Loreto, e inviarono in loco l’ingegnere Pietro Arduzzi e l’architetto ducale Amedeo di Castellamonte con l’incarico di seguire i lavori per la costruzione del santuario. Da Sacro Monte consacrato alla figura di San Carlo Borromeo il progetto di Graglia si trasformò quindi nella erezione di un complesso santuariale incentrato sul culto della Madonna di Loreto, destinato ad irradiarsi a tutta l’area biellese e anche oltre, affiancandosi alla devozione mariana di Oropa. Il cantiere, interrotto, sarà ripreso verso il 1760, con le modifiche al progetto apportate dall’architetto Bernardo Antonio Vittone, portando alla realizzazione di un edificio grandioso, che si compone di una monumentale chiesa a croce greca, con maestosa cupola internamente decorata da Fabrizio Galliari e facciata in mattoni incompiuta nella parte superiore, e di un ampio ospizio per l’accoglienza dei pellegrini.
Quale testimonianza della grandiosità del progetto del Velotti rimangono alcune cappelle del Sacro Monte, in particolare quella interna alla chiesa di San Carlo, in cima all’omonimo colle, e le quattro incorporate nella struttura del santuario, complete di apparato pittorico e di gruppi statuari in terracotta policroma. Le scene rappresentate, eseguite da autori diversi, si riferiscono a temi biblici, la Presentazione di Gesù Bambino al tempio, la Circoncisione, l’Adorazione dei Magi e la Natività.
Una visita al santuario di Graglia, oltre all’interesse religioso e storico-artistico, presenta innumerevoli altri spunti, a partire dallo scenario naturale in cui l’edificio è immerso, con la Colma di Mombarone che domina la valle Elvo dall’alto dei suoi 2371 metri. A poca distanza dal santuario sgorga la famosa sorgente Lauretana, considerata “l’acqua più leggera d’Europa” per il basso valore del residuo fisso (quantità di minerali inorganici rimanente dopo la bollitura di un litro d’acqua). Nel periodo estivo i pascoli della valle sono popolati da numerose mandrie, composte da esemplari bovini in prevalenza appartenenti alla razza Pezzata Rossa d’Oropa, nota anche come razzetta d’Oropa: da queste vacche si ricava il latte per la produzione del burro, utilizzato per la rinomata “polenta concia” biellese, e soprattutto dei formaggi d’alpeggio.
La ricca produzione casearia comprende la Toma Valle Elvo, a maturazione lunga, che un tempo veniva trasportata a dorso di mulo dagli alpeggi al capoluogo valligiano, Sordevolo, per la stagionatura nelle cantine sotterranee, e varie tipologie di “tomini”, dal “tomino di Sordevolo” al “Bedu” o “Beddo”, il tomino tipico biellese a forma di disco schiacciato e spessore variabile dai 2 ai 3 cm. Secondo la tradizione, i tomini erano prodotti giornalmente, modellati nelle apposite forme, lasciati asciugare su graticci di giunco e poi consumati con olio e aceto oppure insaporiti con spezie (tomini elettrici). Se fatto stagionare per 8-15 giorni, il “Beddo” assume un sapore più deciso e gli si forma attorno una patina biancastra, detta “camisa”, dall’aspetto rugoso e morbido. Sempre dalla lavorazione dei tomini, mescolati con una robiola e amalgamati con olio, sale, aglio e un pizzico di peperoncino tritato, deriva un classico della cucina biellese, il “Sancarlin” o “San Carlin”, gustoso formaggio spalmabile, ideale per l’aperitivo.
Sedendosi ai tavoli delle trattorie di Graglia e della valle Elvo, è poi possibile degustare le altre specialità della cucina locale, tra cui citiamo il “ris an cagnon”, piatto tradizionalmente servito nei banchetti nuziali, pensato per esaltare il sapore delle tome locali, che vengono tagliate a pezzetti e mescolate insieme con abbondante burro al riso lessato, la “frità rognosa”, poco attraente d’aspetto, ma squisita nel sapore, che comprende come ingrediente basilare il “salam d’la doja”, salame crudo immerso nello strutto per conservarlo preservandone la morbidezza, la “supa mitonà”, zuppa cotta a fuoco lento (mitoné), a base di pane raffermo, cipolle, formaggio, foglie di verza, e, come dessert, il “palpiton”, torta di pane e cioccolato.
Per completare il quadro, facciamo un rapido cenno a due personaggi legati, per radici familiari, al territorio di Graglia. Il primo è Ferdinando Buscaglione, in arte Fred, l’innovativo cantautore che nacque a Torino nel 1921 da una famiglia originaria proprio di Graglia: i genitori, costretti dalle difficoltà economiche seguite alla Prima Guerra Mondiale, avevano lasciato la frazione Grippaglie di Graglia per trasferirsi in città, in cerca di miglior fortuna, e lì vide la luce il loro figlio destinato a fama canora. Il secondo personaggio è invece un pittore, Paolo Giovanni Crida, che, nato a Graglia nel 1886, spese la sua vita lavorativa a Torino, mettendo il talento artistico al servizio della corte sabauda del principe Umberto, ma anche degli ambienti salesiani, tanto da essere ricordato come il “pittore di don Bosco”.