27 agosto 1950, il mondo della cultura perde uno dei più grandi scrittori del ‘900: Cesare Pavese
TORINO. Il 27 agosto 1950 è una domenica piuttosto calda e noiosa. In centro a Torino ci sono poche macchine e sotto i portici non c’è un grande viavai. All’albergo Roma di piazza Carlo Felice, a due passi da Porta Nuova, lo scrittore Cesare Pavese scrive poche righe con la stilografica sulla prima pagina del libro a lui più caro Dialoghi con Leucò. La calligrafia è ferma e sicura: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Quest’ultima frase si riferiva alle pene d’amore, successiva alla delusione d’amore ricevuta dall’attrice americana Constance Dowling, che aveva conosciuta a Roma assieme alla sorella Doris impegnata sul set del film Riso amaro con Vittorio Gassman e Raf Vallone. Colpito dalla sua bellezza, se n’era innamorato, senza essere ricambiato. A tradirlo fu l’invito a raggiungerla che la donna gli fece da Cervinia, dove aveva deciso di trascorrere un breve periodo di riposo.
Pavese s’illuse nuovamente di essere ricambiato, pur sapendo che Constance aveva una relazione con l’attore Andrea Checchi. La ripartenza della donna per gli States, per tentare fortuna a Hollywood, lasciò lo scrittore amareggiato e infelice. Nel suo Diario scrisse: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”. Ed espresse la propria amarezza per non averla avuta accanto (al suo posto c’era la sorella Doris) in occasione del conferimento del premio Strega nel giugno del 1950 per La bella estate. A Constance Cesare Pavese dedicò comunque le poesie della raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, così come l’ultimo romanzo La luna e i falò.
Poi togliersi la vita, Pavese ingerisce in un colpo solo una dose letale di Veronal, un barbiturico ad azione ipnotica e sedativa. Alle 20.30 i cameriere non avendo avuto risposta per tutta la giornata forza la porta della camera numero 346 e scopre l’uomo steso a terra. La stanza stretta e lunga, è rimasta oggi come quella di allora, se non per i servizi igienici, modernizzati. Una poltrona di cuoio rosso è ai piedi del letto singolo addossato ad angolo fra due pareti; di fronte all’armadio un tavolo piccolo, di legno, con il ripiano rosso.
Arrivano le forze dell’ordine e il medico legale che stabilisce che lo scrittore sia morto nella notte tra sabato e domenica. In pochi minuti l’albergo di piazza Carlo Felice viene preso d’assalto da una schiera di giornalisti e fotografici. Lorenzo Mondo sul quotidiano La Stampa scrive: “Si era tolto le scarpe, teneva un braccio piegato sotto la testa e un piede che penzolava fino a toccare il pavimento. Venti bustine vuote di sonnifero, chiari indizi di volontà suicida, furono trovate sulla mensola del lavabo insieme ad alcune cialde. Sul davanzale della finestra si volatizzarono gli apparenti resti di una lettera incenerita”.
Qualche giorno dopo si svolgeranno i funerali civili, al suicida e ateo Pavese, mentre le cronache definiranno la sua ”una crisi di depressione nervosa, di cui non si conosceranno mai le cause che hanno indotto lo scrittore al suicidio … Tutti erano legati a lui da un affetto profondo, più sovente inespresso che manifesto, tanto Pavese era di temperamento chiuso e scontroso… Negli ultimi quindici giorni, mentre quasi tutti gli amici erano lontani in villeggiatura, Pavese era rimasto a Torino. Forse egli già si preparava a morire”.
Piero Abrate