Condannato a morte in Iran, moglie e figli a Novara dove il ricercatore ha lavorato per tre anni
NOVARA. Stamane alle 10.30 all’’Università del Piemonte Orientale il rettore Cesare Emanuel, il professor Francesco Della Corte e il ricercatore Luca Ragazzoni hanno incontrato Vida Mehrannia, moglie di Ahmadreza Djalali, il ricercatore iraniano in carcere da più di due anni a Evin, vicino a Teheran, con l’accusa di spionaggio. All’incontro ha partecipato anche la senatrice Elena Ferrara che tanto si è spesa sino ad oggi per chiederne la scarcerazione: secondo i giudici e il governo iraniano avrebbe collaborato con Stati stranieri ai danni di Teheran, ipotesi che l’uomo ha sempre respinto con forza, dichiarando di essere stato imprigionato per essersi piuttosto rifiutato di spiare a favore della sua patria. Djalali è stato condannato a morte a ottobre 2017, condanna confermata a dicembre. In seguito al ricorso fatto dall’avvocato, la pena è stata sospesa per consentire alla Corte suprema una revisione sul cui esito ad oggi non si ha più avuto notizia.
«Mio marito sta male, sono preoccupata – ha commentato Vida -. Purtroppo non gli vengono assicurate le cure necessarie. E’ stato sottoposto a torture e danni psicologici e fisici. E’ dimagrito tantissimo. Prima dell’arresto pesava ottanta chili, ora ne pesa solo 56». E, ancora: «Sono qui per ringraziare l’Università, i suoi ex colleghi e tutte le persone che dall’Italia, con ogni mezzo, sono stati vicini ad Ahmad e alla mia famiglia in questi lunghissimi mesi. Sebbene nell’ultimo periodo riusciamo a comunicare al telefono quasi tutti i giorni, non ci è concesso incontrarlo. Ha difficoltà a curarsi e vive con altri otto detenuti in uno spazio limitato. Allo stato attuale non ci è stata fornita alcuna prova reale che dimostri le accuse che gli sono state rivolte». Le fa eco il rettore Emanuel: «Siamo tutti convinti dell’innocenza di Ahmad – dice – continueremo a lottare perché a Djalali vengano garantiti un giusto processo e le cure sanitarie di cui ha bisogno».
Lo studioso a Novara ha vissuto tra il 2012 e il 2015 ed ha lavorato per due anni al centro di ricerca dell’UPO e per il Crimedim, il Centro di ricerca interdipartimentale in medicina dei disastri dell’Università del Piemonte Orientale. Sono tanti coloro che l’hanno conosciuto, anche indirettamente, che si sono mossi in questi mesi per far conoscere la sua storia lanciare la campagna per la sua liberazione, sensibilizzando l’opinione pubblica a livello internazionale. Nel 2015 la famiglia si era trasferita in Svezia. Dei giorni scorsi è la notizia che Stocolma ha concesso al ricercatore la cittadinanza svedese. Nell’aprile 2016, quando è stato arrestato, Djalali si trovava in Iran su invito dell’ateneo di Teheran per tenere conferenze sulla medicina dei disastri, in cui era specializzato. Vida, accompagnata dai due figli, resterà in Italia fino a domenica .