Cento anni fa: dalle casacche azzurre al grigioverde, dai campi di calcio alla trincea
A cento anni dalla vittoria della Grande guerra, il ricordo dei giocatori del Football Club Torino, delle altre squadre di calcio italiane e della Nazionale, caduti al fronte
Il 31 gennaio 1915, la Nazionale italiana di calcio incontrò a Torino la Svizzera, imponendosi per 3 reti a 1. Era l’ultima partita degli azzurri prima della sospensione di ogni attività agonistica internazionale, a causa dei venti di guerra che già stavano soffiando violenti in Europa. Il campionato italiano di calcio continuò fino all’entrata in guerra dell’Italia e fu interrotto con una giornata di anticipo rispetto al calendario degli incontri, nel mese di maggio. Lo scudetto venne attribuito d’ufficio al Genoa, che conduceva la classifica del girone Nord.
Quel conflitto, che per molti sarebbe stato di breve durata, fu invece lunghissimo e terribile, ed inghiottì milioni di giovani vite. Fece numerose vittime anche nel mondo dello sport: decine di talentuosi calciatori non fecero mai più ritorno sui campi di calcio a vestire le casacche dei loro club. Per ricordare i ragazzi che – dopo aver indossato la maglia di molti club italiani e quella azzurra, contribuendo così a cementare l’identità nazionale – caddero sul fronte, a distanza di cento anni dall’inizio della Grande guerra, nel 2015, la Figc, di concerto con il Coni, decise di porre una stele all’ingresso della tribuna autorità dello stadio Olimpico di Roma loro onore. Sono passati altri tre anni, e tra poco – il 4 novembre 2018 – celebreremo il centenario della Vittoria. Un’altra occasione per non dimenticare ed onorare quegli sportivi caduti.
La carne da macello per le Forze armate venne attinta da tutte le regioni italiane, senza distinzioni. E tra questi, non furono risparmiati i calciatori. All’epoca, i giocatori di calcio erano già molto numerosi, e la pratica del football, per quanto fosse ancora agli albori, era molto seguita e condivisa. Gli appassionati di questo gioco di squadra crescevano ogni giorno a vista d’occhio. Gli atleti non erano però ancora considerati dei professionisti, ma degli sportivi (spesso appartenenti alle classi più aristocratiche) che occupavano il loro tempo libero praticando un gioco alla moda. I club di appartenenza, del resto, non fecero quasi mai opposizione alle cartoline precetto dei loro affiliati, e talora erano proprio i calciatori (come succedeva d’altronde per qualsiasi altra categoria di sportivi o di comuni cittadini) che si presentavano volontariamente ai Distretti per essere arruolati, sull’onda di un interventismo da molti dichiarato, per quanto ovviamente non da tutti condiviso.
In ogni caso – strano, ma vero – nel corso degli anni di guerra il football divenne ancor più popolare. Da un lato, il gioco del pallone era d’aiuto per tenere alto il morale dei soldati nei pur rari momenti di svago della dura vita di trincea; dall’altro, il calcio rappresentava una pratica sportiva che permetteva ai ragazzi di mantenere una buona forma fisica. Così, con i rifornimenti di vettovaglie, armi, munizioni, carburante, foraggio e materiale per le salmerie, poteva capitare che al fronte pervenisse di tanto in tanto anche qualche pallone di cuoio, unitamente a qualche paio di calzettoni da calcio. Talora i Genieri si ingegnavano persino a spianare alla meglio i terreni per trasformarli in campi da gioco di fortuna. I soldati americani, dal canto loro, entrati in lizza nei mesi finali del conflitto, e che ancora non conoscevano il gioco del football, per gli stessi motivi di cui sopra, nei momenti di pausa dalle azioni belliche, praticavano invece abitualmente la pallavolo (il volley), gioco che dopo la fine della Guerra, si diffuse rapidamente in tutta Europa.
A conferma della popolarità già raggiunta in Europa dal gioco del calcio, voglio ricordare un aneddoto che ha il sapore della leggenda (ma che pare sia nato da un episodio concreto). Si racconta che nel dicembre del 2014 tedeschi ed inglesi (per loro era già guerra), si fronteggiassero, ognuno trincerato nelle proprie postazioni, in una non meglio precisata località delle Fiandre. Gli scontri a fuoco erano continui. Gli assalti, da una parte e dall’altra, per quanto cruenti, e al di là delle perdite reciproche, non si traducevano in azioni tattiche risolutive, che consentissero un sia pur minimo avanzamento, né per l’uno né per l’altro dei contendenti. Era una situazione di stallo da cui sembrava non fosse possibile trovare una via d’uscita. La notte di Natale, tuttavia, i fucili e le mitraglie tacquero come per incanto. Un silenzio irreale scese sui soldati. Un silenzio sinistro, che sembrava promettere proprio nulla di buono. Poi, alcuni soldati tedeschi intonarono un canto di Natale. Gli fecero eco le voci dei soldati inglesi. E poi le voci si unirono, all’unisono, ed un unico canto si diffuse sulle trincee e “sulla terra di nessuno” che divideva i due fronti, come una carezza surreale di effimera pace. Qualcuno si prese coraggio, e timidamente si alzò dalla cavità della trincea. Lo stesso circospetto movimento fu fatto da alcuni soldati nemici del settore opposto. Infine, tutti i soldati si alzarono dalle trincee, e – da una parte e dall’altra – cominciarono ad avvicinarsi tra loro. E si sorridevano. E fraternizzavano. Qualcuno si abbracciò. Fu una tregua insperata, breve, ma solida, perché scaturita dai cuori. Poi qualcuno tirò fuori – chissà da dove – un pallone di pezza. Lo gettò sulla “terra di nessuno” e furono 50, 100 soldati con le divise di due colori diversi tra loro a rincorrerlo, e a calciarlo. E ne nacque una partita di calcio, tra inglesi e tedeschi, in una mischia furibonda e gioiosa, tra le esultanze, le grida e il tifo di chi si era schierato tutt’intorno al campo improvvisato in nome di una pace invocata e anelata, che però durò solo lo spazio di una notte.
Ma torniamo ai giocatori di calcio caduti sul fronte. Tutte le squadre di calcio dell’epoca pagarono un pesantissimo e doloroso contributo di vite umane. Il bilancio dei caduti milanisti fu molto grave. Il primo calciatore rossonero a morire al fronte fu Erminio Brevedan, ventunenne sottotenente della Brigata Marche, 55° Fanteria. Perse la vita il 20 luglio 1915 sul Monte Piana. Aveva esordito nel Milan nell’ottobre 1914, contro l’Audax Modena, contribuendo con una tripletta all’altisonante 13-0 finale. A poco meno di tre mesi dal suo arruolamento, il capitano Di Lena gli ordinò di condurre i fanti della Prima compagnia all’assalto d’una trincea austriaca.
Il fuoco nemico lo centrò in pieno petto. Gli altri milanisti caduti furono: Canfari, Colombo, Moda, Rovelli, Soldera, Gaslini, Calderari, Carito, Forlano, il vicepresidente Porro Lambertenghi, Wilmant, Azzolini ed il dirigente e socio fondatore Glauco Nulli, che venne decorato con una Medaglia d’oro al valore militare.
Anche il Grifone pagò un consistente tributo di vite umane: il club ligure pianse moltissimi caduti. Ci limitiamo qui a ricordare due illustri personaggi che hanno segnato la storia del Genoa, e che persero la vita sul fronte. Uno era il fondatore della Sezione calcistica del Cricket & Football Club Genoa, James Richardson Spensley, volontario dell’Esercito Inglese. Con i galloni da luogotenente nel Royal Army Medical Corp, presso Magonza, nel 1915, venne colpito da una raffica di proiettili mentre generosamente cercava di prestare soccorso ad un nemico gravemente ferito. Spirò dopo un mese di agonia, e gli furono concessi gli onori militari. Un altro celebre rossoblù caduto al fronte fu Luigi Ferraris. Ingegnere in forza alle Officine Elettriche
Genovesi e poi alla Pirelli, militò nel Genoa tra il 1904 e il 1911. Allo scoppio della guerra, avendo rifiutato l’esonero, volle essere inviato in prima linea come volontario. Con il grado di Aiutante maggiore combatté in prima linea nell’Alto Vicentino con lo stesso slancio con cui correva sui campi da calcio. Quando il 23 agosto del 1915 venne colpito da una palla di cannone, esalò l’ultimo respiro esclamando: «Siamo in guerra per riuscire a vincere e non per riportare la pelle a casa!». Gli fu assegnata una Medaglia d’argento al valore militare postuma, che venne interrata ai piedi della Gradinata nord dello stadio Marassi, intitolato alla sua memoria fin dal 1933.
E così via: la guerra mieté vittime in tutte le squadre, di ogni categoria, lasciando una dolorosa scia di vite spezzate e di carriere e speranze tragicamente interrotte. Lo Spezia pianse Alberto Picco, calciatore caduto eroicamente sul fronte orientale nella battaglia per la conquista del Monte Nero (giugno 1915): a lui venne dedicato lo Stadio cittadino. Re Vittorio Emanuele III gli conferì la Medaglia d’argento al valore militare, citando le ultime parole pronunciate da Picco prima della morte: «Viva l’Italia! Muoio contento di aver servito il mio Paese». L’Inter, a fine conflitto, pianse 26 tesserati. Tra le squadre venete, l’Hellas Verona e l’Udinese videro dimezzati i loro organici. La Juventus, tra gli altri, perse Enrico Canfari, socio fondatore e secondo presidente del club tra il 1898 e il 1900: morì nel 1915 sull’Isonzo, mentre era al comando di un reparto di Fanteria che aveva lanciato all’assalto.
E il Football Club Torino? Il suo tributo fu pesantissimo. Su questo tema, ci viene in aiuto il libro di Gian Carlo Morino Il Fila, edizioni Priuli & Verlucca, Torino, 2017, che è una fonte di informazioni davvero preziosa ed esaustiva. In esso si legge che al Filadelfia, “sulla sommità della scala centrale di accesso alla Tribuna centrale era posta una targa a ricordo dei giocatori granata caduti durante la Prima guerra mondiale”. Quella targa è stata successivamente asportata e sostituita con una nuova lapide dedicata agli Immortali caduti a Superga nel 1949. Morino ha condotto un’attenta ricerca, sfogliando giornali e riviste d’epoca, e i necrologi commemorativi dei caduti pubblicati dal FC Torino. Così che oggi è nuovamente possibile ricomporre quel tragico elenco di nomi pubblicato sulla lapide: Amilcare Bardi; Pierino Berra; Leopoldo Bertagnoli: Ademaro Biano; Ettore Biano; Alessandro Brunelli; Pier Luigi Caldelli; Ettore Campioni; Annibale Del Piano; Gino Goggio; Francesco Marchisio; Ferdinando Motta; Guglielmo Peani; Giuseppe Sacco; Domenico Testa.
In questo articolo, ci limitiamo a riportare un breve tratteggio storico di un paio di questi calciatori che cento anni orsono aveva vestito la casacca granata, e che morirono al fronte in grigioverde. Il Torino di Amilcare Bardi (uno dei primissimi associati del Club) era quello che ancora giocava sul campo della vecchia Piazza d’Armi, in Corso Peschiera, davanti alla Crocetta: in quella squadra militava Bollinger, maestro di rovesciate. Capitano di Fanteria, cadde il 12 Giugno 1916: Fu colpito da una pallottola di mitragliatrice, mentre “alla testa della sua Compagnia, si lanciava contro i reticolati nemici cercando di oltrepassarli”. Un altro caduto è stato Pier Luigi Caldelli: anch’esso praticava il campo di Piazza d’Armi. Di origini toscane, era sempre sorridente: anche quando le sorti della partita sembravano non arridere al successo granata, non perdeva mai né la fiducia né l’allegria. S’infortunò seriamente nel 1911 al ginocchio nel corso di una partita maschia contro la Pro Vercelli. Intrapresa la carriera militare, viene promosso Tenente Aviatore. Partito da Porto Maurizio su un idroplano per un volo di perlustrazione per avvistare le torrette a fior d’acqua dei sommergibili nemici, precipitò in mare per un guasto al motore a pochi mesi dalla fine del conflitto.
Davvero eroici e suggestivi questi calciatori italiani di cent’anni orsono, le cui gesta ancora ci emozionano. Scorrendo le cronache del tempo, si scopre quanto appassionato fosse l’attaccamento ai colori della maglia della squadra per cui militavano, e come la fedeltà agli ideali della Patria fosse per loro motivo di orgoglio granitico e immarcescibile, fino alla morte.
I tempi sono cambiati, certo. Ma noi non possiamo dimenticarli, perché il loro ricordo ci riporta ad un calcio pulito, all’insegna del fair play e della lealtà sportiva, del sacrificio e della dedizione alla Patria, che oggi rappresentano valori rari e quindi preziosi.
Nella foto in alto: di fronte allo stadio del Liverpool, è stata posta una gigantesca scultura raffigurante un soldato inglese ed un soldato tedesco della Grande Guerra, che si stringono la mano, a perenne ricordo di un Calcio che – almeno per un giorno – riuscì a dimostrarsi più forte della guerra.