Serial killer nella storia di Torino: Giovanni Gioli, il mostro di via della Consolata
Nel gennaio 1902 scompare la bimba Veronica Zucca: ha poco più di 5 anni. Viene ritrovata mesi dopo mummificata nelle cantine di palazzo Pedana. E’ stata trafitta da sedici coltellate. Un anno e mezzo dopo sparisce Teresina, un’altra bimba di cinque anni. Il portinaio della casa, va in cantina lungo la scala a chiocciola che aveva percorso anche Veronica. Trova Teresina sotto stracci e rottami ancora viva. L’uomo si ricorda di aver dato le chiavi della cantina ad un addetto alla spazzatura, Giovanni Gioli. Il giovane, messo alle strette confessa e viene condannato a 25 anni e due mesi
La vicenda ha inizio il 12 gennaio 1902, in piazza Savoia (allora piazza Paesana), davanti al “Caffè Savoia”. Un luogo assolutamente non malfamato, a due passi dal palazzo comunale e dal duomo dedicato a San Giovanni Battista, con la cappella guariniana in cui si trova la Sindone. Il caffè è gestito dalla famiglia Zucca, brave persone, lavoratori, ben voluti dalla gente. La loro piccola Veronica, cinque anni e mezzo, è solita giocare davanti al locale dei genitori, non si allontanava mai oltre via della Consolata, estremo punto fino al quale i genitori possono controllarla. Verso mezzogiorno, la mamma esce per osservare la figlia, ma Veronica non c’è Qualche secondo di perplessità, poi il nome chiamato con sempre maggiore forza: inutilmente. In breve, intorno al locale, giungono molte persone, qualcuno l’ha vista, altri credono di averla vista; c’è anche chi parla senza saper cosa dire. Come sempre in casi del genere. Qualcuno fa il nome di un certo Alfredo Conti, un ragazzo di sedici anni che, secondo alcuni testimoni, si sarebbe intrattenuto a parlare con la bambina. La polizia inizia subito le ricerche anche perché quel giovane ha lavorato per un breve periodo nel caffè del signor Zucca, dal quale era stato poi licenziato perché poco volenteroso e considerato scansafatiche.
Per l’indiziato è un brutto momento: lui però, malgrado la giovane età, si dimostra equilibrato e maturo, non nega di aver parlato con Veronica, ma solo per chiederle di chiamare un suo amico che trovava nel “Caffè Savoia”, un certo Chiaberto, perché, per ovvi motivi, preferiva non entrare nel locale. La sua versione in fondo sta abbastanza in piedi, anche se in effetti, visto il passato scontro con il padre di Veronica, risultava un indiziato importante.
Il Conti viene così arrestato, ma trattenuto per poco tempo: infatti, è possibile dimostrare, anche con il contributo di alcuni testimoni, i suoi spostamenti dall’incontro con la bambina, fino al fermo. Nei giorni immediatamente successivi, la mancanza di tracce e indizi accentua l’angoscia della famiglia. E’ nel mese di aprile del 1902 che la vicenda assume caratteri tali da renderla degna, purtroppo, dell’olimpo della cronaca. In quei giorni, palazzo Paesana di Saluzzo, situato al numero civico 1 di via della Consolata, un edificio barocco che sembra evocare la ricchezza delle residenze sabaude, è al centro di una serie di restauri. Uno degli operai impegnati nei lavori, il falegname Angelo Damiano, è intento a liberare gli infernotti (le cantine) da una gran mole di materiali che si è accumula nel corso degli anni.
L’uomo viene colpito da un odore sgradevolissimo che giunge da una della cantine: l’operaio apre la porta del locale e si trova davanti ad una grande cassa di legno dalla quale proviene quel fetore. Con notevole disagio il Damiano sollevò il coperchio e scopre un piccolo cadavere, quasi scheletrito, e posto in quella casa a forza viste le sue piccole dimensioni: è quello della piccola Veronica. Ad una prima sommaria analisi, non vengono segnalate delle anomalie sul cadavere, però il quadro cambia radicalmente quando viene effettuata l’autopsia: chi ha ucciso la bambina non aveva ha pietà. I patologi contano sedici coltellate…
Gli inquirenti tornano ad indicare con sospetto il giovane Conti; però il ragazzo, che ormai aveva imparato a sue spese come difendersi, riesce a liberarsi dai ceppi delle accuse non documentate e dai teoremi. In breve viene completamente scagionato. Le cose non vanno altrettanto bene a Carlo Tosetti, uomo di fiducia del marchese di Paesana: da 40 anni suo cocchiere e per certi aspetti uno di famiglia. Per l’opinione pubblica diventa lui l’assassino, forse in ragione del fatto che quell’uomo ha libero accesso agli infernotti. L’uomo per due mesi viene torchiato dalla polizia e lasciato in prigione a languire: è oggetto delle accuse dei giornalisti che costruiscono teoremi poi risultati infondati. A carico del poveretto non vengono rinvenuti indizi probanti e quindi viene rilasciato: di certo però quell’esperienza è per lui tremenda, al punto tale che non ha più la forza di sollevarsi. Trascorre il resto della vita in solitudine, ferito dal sospetto di molti e guardato come un criminale. Morirà in povertà, dimenticato.
All’inizio dell’estate del 1903, anche Teresina Demarca, di cinque anni, che abita al quinto piano di palazzo Paesana di Saluzzo, scompare misteriosamente. Immediatamente tutti pensarono alla tragedia di Veronica, vi sono dei legami? Si tratta di un’altra azione del Mostro di via della Consolata? L’inquietudine sale soprattutto dopo l’esclusione di Conti e Tosetti: anche se, è naturale, i due sono guardati in cagnesco dalla gente preoccupata e inferocita. Per fortuna le ricerche partono subito proprio dagli scantinati in cui è stato rinvenuto il cadavere della piccola Zucca. E là, nella parte più oscura degli infernotti, viene ritrovata Teresina. E’ malconcia, ferita da tre coltellate, ma non è in pericolo di vita. Probabilmente il suo aggressore è stato costretto a fuggire, ma è più probabile che trattandosi di uno squilibrato abbia deciso di riprendere il suo rito in seguito, nascondendo così l’oggetto della sua attenzione morbosa, come fanno alcuni predatori.
Le indagini partono subito bene: gli investigatori vengono a sapere che il giorno della scomparsa di Teresina uno degli addetti alla raccolta della spazzatura ha chiesto al portiere dello stabile la chiave della cantina. La sua richiesta è soddisfatta senza sospetti, perché il portiere pensa che l’uomo debba effettuare delle operazioni di pulizia nei sotterranei. Si individua rapidamente l’addetto. Si tratta di Giovanni Gioli, 23 anni, un semniritardato con il cervello di un bambino, indicato “ebete”, secondo un metodo identificatorio allora piuttosto diffuso. In breve il ragazzo confessa l’aggressione a Teresina e l’omicidio di Veronica: accompagna le sue dichiarazioni con tutta una serie di elementi che pongono ulteriormente in evidenza quanto sia grave la sua patologia psichiatrica. Parla di voci e visioni: «Da un po’ di tempo facevo brutti sogni. Vedevo acqua, tanta acqua e un’ombra. Un fantasma mi correva dietro e mi faceva paura. Scappavo ma è come se non riuscissi a muovermi. Una notte sono anche caduto dal letto». Ha però la lucidità di ricordarsi di alcuni fatti salienti relativi all’uccisione di Teresina: «Il coltello non tagliava, serviva solo a bucare, allora l’ho messa nel cassone che era ancora viva».
Gioli parla e parlando scoperchia il suo Vaso di Pandora: all’interno vi sono altre aggressioni che il ragazzo aveva già alle sue spalle, tutte ai danni di bambine. Tre per la precisione: in nessuno di questi casi però le vittime erano state uccise. Nel febbraio 1904 ha inizio il processo. Anche se l’imputato si dimostra chiaramente uno squilibrato, gli viene negata l’infermità mentale: durante il dibattimento mangia e ride, sembra che non si renda conto della gravità dei crimini commessi. Il pubblico che segue il processo, più volte chiede a gran voce la pena di morte. Sovente i toni divengono insostenibili: la folla invocante giustizia sommaria costringe il presidente della Corte a far sgombrare l’aula. La corte decide per una pena non eccessiva: 25 anni e 2 mesi, cui avrebbero dovuto seguire tre anni di “vigilanza speciale”. Nella sostanza, i giudici escludono l’omicidio aggravato riconoscendo, solo per il caso della piccola Veronica, l’infermità mentale.
Alla lettura del verdetto, Giovanni Gioli si dimostra e si limita ad affermare: «Uscirò a quarantotto anni», e poi sorride. Cambia espressione in strada quando il carro-cellulare che lo porta in prigione viene accerchiato dalla folla intenzionata a linciarlo. E’ salvato a fatica dai tutori dell’ordine. Poi alle sue spalle si chiude il pesante portone delle Nuove, le carceri di Torino che oggi sono un pezzo d’archeologia.
Massimo Centini