Storie assassine del Novecento: l’uxoricidio della Bela Rinin al “Gran Cairo”
La Bela Rinin fu vittima di uno di quei delitti che oggi, in prima istanza, saremmo portati ad indicare come espressione di una violenza ascrivibile solo a un criminale con gravi problemi psichici. Forse un serial killer. Ma negli anni Venti del Novecento, le cose andavano diversamente. Per raccontare la storia della Bela Rinin e la sua tragica fine dobbiamo ritornare al 2 ottobre 1925 e spostarci in una zona di Torino che allora era periferia, attraversata dai binari dei treni. Quella zona aveva un nome strano, Quadrivio Zappata, sembra che l’avessero battezzata in quel modo i ferrovieri. Almeno così si diceva. In quel punto vi era un semaforo che regolava il traffico dei treni e spesso, prima di entrare in stazione, i convogli dovevano fermarsi nell’attesa del segnale di via libera e quindi percorrere gli ultimi tratti prima di accedere a Porta Nuova.
Fu proprio in seguito ad una sosta che quel 2 ottobre, Luigi Ruffino, macchinista del locomotore che trainava il locale in arrivo da Chivasso, aprì il finestrino e si accese una sigaretta in attesa del verde. Le prime luci del giorno illuminavano già alcuni lembi di campagna, c’era un po’ di nebbia, ma Ruffino vide bene un grosso fagotto molto vicino ai binari. Fu incuriosito al punto di scendere dal mezzo per guardare da vicino quello strano involto. Appena si accostò si rese conto che da quella massa informe usciva un piede. Nel frattempo qualche curioso aveva imitato il macchinista e ben presto intorno a quell’inquietante fagotto si formò un piccolo gruppo di persone.
Qualcuno si infuse coraggio e sciolse le corde che avvolgevano una carta molto pesante: il contenuto era costituito da due gambe complete, si capì che erano femminili perché indossavano ancora calze e scarpe con tacchetti. Benché mancasse il resto del corpo, quelle povere gambe bastarono per un riconoscimento: erano quelle di Erina Barbero, detta Bela Rinin. Le riconobbe il marito, Francesco Cattaneo, che con la donna condivideva una vita sventurata, fatta di espedienti. Lei lavorava sui marciapiedi di via Saluzzo e via Berthollet: nell’area più antica di Torino, dove non era difficile trovare prostitute e sfaccendati.
La coppia era alloggiata presso il Gran Cairo, un albergo di quelli compiacenti, dove nessuno rivolgeva mai troppe domande agli ospiti. Era situato all’angolo tra via Santa Teresa e via Roma: scomparirà quando la principale arteria viaria della città, sarà ricostruita a partire dal 1913 e così il volto di via Roma cominciò a cambiare in ragione della necessità di trovare un aspetto nuovo per quella importante strada cittadina. Ma tutto si fermò a livello di progetto fino agli anni Trenta quando dalla carta si passò alla realizzazione vera e propria. La “vecchia” via Roma era destinata a scomparire per sempre e dare spazio a quella nuova. Fino ad allora, al “Gran Cairo” si ritrovavano abitualmente i tiratardi, ed era possibile incontrarci le prostitute; ma in quel locale c’erano anche gli intellettuali, artisti alla ricerca di ispirazione, attori in attesa di essere ingaggiati da qualche regista di una Torino che via via vedeva perdere il proprio primato di capitale del cinema. C’era anche chi andava lì per ballare, o per affittare una stanza, magari solo per un paio d’ore… Chi non voleva dare nell’occhio poteva accedere da via Roma e quindi uscire dalla porta secondaria, che dava sulla meno trafficata via Viotti.
Oltre al problema rappresentato dalla necessità di capire come morì la Bela Rinin, vi era anche il non secondario impegno di ritrovare le altre parti del cadavere. Il primo ad essere messo sotto torchio fu il marito, considerato un indiziato: l’uomo aveva un alibi tentennate e quindi fu arrestato. In quei giorni un ragazzo rinvenne altre parti della vittima: il tronco e le braccia erano contenute in un pacco situato al numero 5 di via Orazio Antinori, non lontano dal centralissimo corso Re Umberto.
Nel frattempo, alcuni testimoni, che avevano incontrato la povera Erina nei giorni immediatamente precedenti la sua scomparsa, dissero di averla vista spaventata e angosciata: sembrava avesse espresso dei precisi timori nei confronti del marito. Pare che l’uomo avesse ucciso, alcuni mesi prima, un certo Leopold Fleishmann, un austriaco che potremmo considerare l’antesignano di una “professione” oggi purtroppo assai diffusa. Spacciava cocaina: i suoi clienti erano limitati, di certo però, come attualmente, quel commercio gli rendeva bene. Alcuni testimoni dissero di aver saputo dalla donna che il Cattaneo uccise lo spacciatore probabilmente per motivi legati ai proventi della vendita della droga.
L’incontro tra l’austriaco e il suo assassino avvenne nella cosiddetta “Strada dij mort”, una via in salita che collega Torino a San Vito: un luogo appartato e oscuro. L’omicida colpì Fleishmann con un’accetta alla testa: un crimine che allora ebbe una certa eco. La testa dello spacciatore, segnata dai suoi traumi ben evidenti, fa ancora parte dei reperti di traumatologia conservati nel Museo Lombroso di Torino. Chiuso in un vaso di formalina, quel documento è certamente un reperto criminologico abbastanza forte da osservare per chi non è addetto ai lavori… La Bela Rinin fu uccisa dal marito per evitare che parlasse troppo? Gli investigatori erano convinti che questa fosse la pista da seguire.
In un altro punto della città venne casualmente rinvenuta la testa della donna: si trovava in un’area piuttosto lontana dalle altre due, ma era inequivocabilmente il tassello mancante per riconoscere l’identità di quei poveri resti che giacevano all’obitorio centrale. La testa fu ritrovata, con alcuni indumenti della vittima, da due operai che lavoravano sulla riva sinistra del Po, tra il ponte di corso Regina Margherita e il punto in cui attualmente si trova la passerella Carrara. Il tutto era stato avvolto con alcune pagine de “La Gazzetta del Popolo” del 1 ottobre 1925.
A quel punto si fece avanti un testimone, un uomo di fatica che lavorava al “Gran Cairo”: disse di aver visto, dalla porta socchiusa della camera 8 (dove vive la coppia), il Cattaneo con altri due uomini che armeggiando con carta e corda cercavano di impacchettare qualcosa di grosso. L’uomo non sapeva di che cosa di trattasse e probabilmente si sarebbe dimenticato di tutto se il marito non fosse sceso in portineria per minacciarlo: «Stai zitto, perché se parli ti facciamo la festa !» Parole che il povero facchino non dimenticò tanto facilmente. Cattaneo venne giudicato colpevole e si prese trent’anni, Ludovico Bestini, uno dei complici, cinque anni. Il terzo uomo non fu mai trovato…