Enrico Camanni, quando la passione per la montagna diventa scrittura
TORINO. Nasce nel 1957 il torinese Enrico Camanni, alpinista, giornalista, e scrittore. Dalle innumerevoli scalate sulle Alpi, all’insegnamento presso una scuola di alpinismo, la passione per la montagna lo accompagna da sempre, tanto che, attraverso l’amore sconfinato per l’alpinismo, si avvicinerà al giornalismo di montagna, alternando, negli anni, lo studio con il lavoro di redazione. La vita lo porterà, quindi, a scrivere molti articoli, poi libri, e a partecipare a documentari, che lo coinvolgeranno in una nuova avventura: «Il cinema è la mia terza passione, con la montagna e la letteratura. È sempre un racconto, ma con parole e immagini», affermerà.
Perché montagna e letteratura sono due passioni “esigenti” per lei?
Perché non mi accontento, non mi piace ripetere. Sia in montagna sia nella scrittura ho sempre cercato nuovi terreni, altrimenti avrei perso la motivazione. Credo che la montagna non sia uno spazio chiuso ma un universo apertissimo, metafora del mondo e della vita. Io almeno la interpreto così e cerco di raccontarla agli altri in questo modo. Non mi rivolgo a chi sa, agli appassionati, ma cerco sempre di coinvolgere gli altri. Questa è la vera sfida.
Come definirebbe il giornalismo di montagna?
Continuo a pensarlo secondo l’idea che nel 1985 mi ha guidato verso l’avventura di Alp, il primo mensile italiano di montagna. Ero giovanissimo, ma avevo imparato che nell’esigentissimo mondo della montagna bisognava essere più autorevoli di Dio per ottenere informazioni. Al primo sospetto di incompetenza gli alpinisti si barricavano nei loro segreti e ti trovavi in ostaggio della congrega iniziatica. Non avevo nessuna intenzione di fare un giornale per gli scalatori, i montanari, il Club Alpino o qualunque categoria che amasse essere coccolata, viziata e perdonata. Per trascinare la montagna fuori dal cenacolo intendevo ispirarmi semplicemente alle regole dell’informazione: riportare i fatti con buone penne e in piena autonomia di giudizio. Non occorreva essere grandi alpinisti o grandi camminatori per fare un buon giornale di montagna: bisognava essere buoni giornalisti.
Lei ha aperto circa una decina di nuove vie sulla roccia. Ci faccia provare, spiegandola a parole, l’emozione che sente uno scalatore quando ciò accade.
Può essere un’emozione esplorativa, anche se sulle Alpi c’è ben poco da esplorare, ormai. Per me è sempre stata soprattutto un’emozione estetica, non solo nell’aprire ma anche nel ripetere. Probabilmente avrei potuto aprire più vie e mettere il mio nome su qualche altro pezzo di roccia, ma m’interessava di più scoprire e ripetere le linee più eleganti, che naturalmente erano già state scalate. Quindi preferisco rifare le vie degli altri, le più belle, spesso identificandomi nella loro creazione.
Negli anni ha conosciuto molti luoghi e comunità di persone. Come percepisce la gente di montagna?
Per molti anni ho pensato che fossero diversi da me, gente fiera e impenetrabile, e ho amato quella diversità idealizzandola. Forse c’era del vero perché esisteva ancora una “cultura alpina”, o almeno il lascito di una civiltà. Adesso credo che i montanari soffrano di conformismo come tutti gli altri, e non credo più nella divisione tra cittadino e montanaro. Siamo tutti figli di una stessa cultura e dobbiamo imparare ad abitare territori diversi, rispettandoli, amandoli. Per me quello che ama e rispetta la montagna è il montanaro di domani, anche se viene dalla città. E viceversa.
Sentieri creativi, un corso sperimentale di montagna e scrittura, e Camminate spirituali sono due iniziative che la riguardano. Secondo lei cosa lascia la montagna nel cuore di chi se ne avvicina?
La montagna è tornata a parlare al cuore della gente attraverso la letteratura e altri generi narrativi. È una cosa recente. La novità sta nel fatto che la cultura montana contemporanea non passa più attraverso i convegni, gli incontri scientifici, le accademie, i club alpini, le iniziative politiche, gli enti e le istituzioni, ma muove dalla fantasia creativa. I giovani non vanno ai convegni ma affollano i festival, magari ascoltando le stesse cose in forme e linguaggi diversi. Il rinnovato interesse per le terre alte, così prorompente da riempire le radure e le piazze delle valli, è affidato alle mediazioni artistiche di attori, scrittori, musicisti, registi e autori di ogni provenienza. Il tema alpino è filtrato dal cinema, dalla recitazione, dalla musica, dalla danza e soprattutto dalla letteratura, che è diventato il medium efficace per divulgare il sentimento contemporaneo di montagna, natura e avventura.
Stare nei grandi spazi che la natura offre è come andare a trovare qualcuno con cui si sa di trascorrere una giornata indimenticabile, perché c’è qualcosa di mistico che inspiegabilmente tocca l’anima. Quali sensazioni “ascolta” Enrico Camanni tra le montagne?
Rispondo con le parole di un mio libro, Alpi ribelli: «Sono stati gli artisti romantici ad aprire le tendine delle carrozze e allungare lo sguardo ribelle, per accorgersi di quanto fosse bello il disordine alpino e quanta gioia scaturisse dal paesaggio indocile. Le Alpi rompevano le regole dell’armonia classica; erano il grido trasgressivo della geologia contro la natura conformista delle pianure; chi amava le montagne praticava una disubbidienza geografica e culturale. E se fosse ancora il senso della montagna? Se rimanesse quello il messaggio? Sono cambiati i tempi, abbiamo riempito molti vuoti e dissipato troppa bellezza, ma ci restano quelle creste profilate come domande nel cielo. Schiaffi di pietra alla società liquida. Ostinatamente provocanti, disobbedienti anche al nostro disincanto. Se non ci parlano di cose alte, se non ci esortano una volta ancora ad alzare gli occhi e aprire la mente per guardare oltre, allora le Alpi non esistono».
E il mare, come lo racconterebbe?
Mi pare che se le Alpi sono un pezzo di terra in cielo, il mare è più un pezzo di cielo in terra. Forse per questo lo trovo più pacificante, ma è solo perché non sono un marinaio, e neanche un navigatore.
Qual è, tra i suoi, il libro a cui è più affezionato?
La notte del Cervino, che è stato il primo romanzo. È la storia di una giornalista ribelle (Chiara), l’amica “perduta” (Anna) e due alpinisti legati da misteriose radici montanare. Il romanzo è ambientato in due tempi, il 1968 e il 1977, negli anni dell’utopia spazzata dal terrore, sul crinale della guerra civile.
Quali sentimenti emergono tra le pagine di Verso un nuovo mattino. La montagna e il tramonto dell’utopia (Laterza), il suo ultimo scritto che ha ricevuto il Premio della Montagna Cortina d’Ampezzo 2018?
Ho cercato in tutti i modi di tener fuori la nostalgia, ma credo di non esserci riuscito. Traspare il desiderio di tornare a credere in qualcosa che valga la pena, aspettando con trepidazione il nuovo mattino, che per fortuna viene ogni giorno.
Dovendo completare in modo ironico questa frase: “Non si direbbe mai che Camanni…”, cosa direbbe di sé stesso?
Sono un uomo emotivo e romantico. La montagna mi serviva a mascherare la fragilità, ma adesso non ne ho più bisogno. La lascio andare, cerco di trasformarla in energia creativa.