Torino ricorda i 650 mila militari italiani internati dai nazisti
Ben 650.000 soldati d’onore non si piegarono a Hitler e per questo furono internati in campi di internamento nazisti. Il 30 gennaio sono stati commemorati durante un incontro al Museo Pietro Micca di Torino
TORINO. Mercoledì 30 gennaio si è tenuta presso la Sala Convegni del Museo Pietro Micca di Torino una conferenza per commemorare i Soldati dell’IMI internati in Germania e in Polonia dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943. Furono dei “soldati d’onore”, che avrebbero potuto rinunciare ad un pesante e massacrante periodo di internamento nei Lager nazisti, se solo avessero accolto l’”invito” ad arruolarsi negli Eserciti germanici e dell’effimera Repubblica Sociale Italiana. Ma non lo fecero, restando fedeli ad un ferreo ideale di democrazia.
Furono 650.000 i soldati italiani, di ogni ordine e grado, appartenenti a tutte le Armate, che furono deportati nei campi di internamento nazisti. La maggior parte furono catturati nei Balcani (soprattutto in Dalmazia, in Grecia e in Albania); altri, appartenenti alla IV Armata, furono catturati in Francia; molti di essi furono catturati sul territorio italiano, mentre tentavano di raggiungere le loro città di residenza civile. Le unità navali della Marina Italiana riuscirono a convergere quasi tutte a Malta, e si misero subito a disposizione degli Alleati. Una sorte meno favorevole toccò alle truppe dell’Aviazione, in gran parte concentrate in Sardegna: il 50% degli Avieri fu coinvolto nella cattura da parte dei Tedeschi; gli altri si schierarono con gli Alleati. Per quanto riguarda l’Esercito, invece, fu una rotta totale: 1.700.000 di soldati si ritrovarono allo sbando, facilmente identificabili perché indossavano indumenti militari: di essi un milione fu catturato dai Tedeschi. Solo 150.000 di essi accettarono di arruolarsi nelle truppe della Repubblica di Salò, istituita il 23 settembre 1943, o tra le file dell’Esercito germanico; molti altri riuscirono a fuggire e ad unirsi ai militari che già si erano dati alla macchia, unendosi alle forze partigiane. Dei 650.000 soldati italiani che furono trasferiti nei Lager nazisti, 50.000 di essi non fecero mai più ritorno in patria.
Per quasi 65 anni, venne steso il silenzio sulla terribile esperienza di questi militari. La loro detenzione non finì con il crollo della Germania, ma si protrasse fino ad agosto e settembre del 1945, con un peregrinare da una campo all’altro, in attesa che i liberatori americani, inglesi, canadesi e russi organizzassero il loro ritorno. In genere, il rientro avvenne avventurosamente su carri merci o carri bestiame: i convogli, per evitare le tratte di strada ferrata distrutta dai danni della guerra, dovevano spesso effettuare giri viziosi di migliaia di chilometri attraverso l’Europa.
Dopo anni di silenzio, gli IMI (Internati Militari Italiani) ora vengono ufficialmente ricordati nel giorno della Memoria (il 27 Gennaio di ogni anno), unitamente alle vittime della Shoah. Una legge del 2006 ha stabilito che ai reduci dai campi di concentramento (o ai loro eredi) venisse concessa in ricordo una medaglia d’onore, che può essere richiesta direttamente alla Presidenza del Consiglio, oppure per il tramite dell’Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia (ANRP), che detiene l’Albo degli Internati Militari Italiani e può fornire la necessaria modulistica.
Introdotta dall’intervento del Gen. Franco Cravarezza, la prof.ssa Carla Amoretti, nel corso della conferenza, ha ricordato la figura di suo padre, il Gen. Guido Amoretti, fondatore del Museo Pietro Micca di Torino, ed ex internato in Germania. Amoretti, allora Sotto Tenente, classe 1920, venne catturato in Grecia. Con un lungo viaggio su un carro bestiame, partito da Skopje, raggiunse la Germania passando per Sofia, la Romania e la Bulgaria. Da Norimberga, venne poi trasferito nei campi di Zieghenhain, poi di Cholm e di Deblin (in Polonia), poi ancora a Sand Bostel, al confine con la Danimarca. L’ufficiale fece ritorno a Torino solo nel mese di settembre del ’45. La relatrice, con commozione ma con precisione storica, ha rievocato (leggendo brani tratti dai diari tenuti da suo padre durante prigionia) il terribile stile di vita nel Lager, dove gli internati erano alla mercé di due micidiali flagelli fisici: la fame ed il freddo, cui si aggiungevano le percosse e le angherie psico-fisiche. Nelle camerate, gli internati disponevano di una sola stufa, attorno alla quale i prigionieri si scaldavano a turno; dalle coperture del tetto, colavano stalattiti di ghiaccio lunghe trenta centimetri; le razioni di cibo erano limitatissime, a base di “sbobba” d’acqua sporca con qualche pezzo di rapa e buccia di patata.
Verso la metà di aprile del 1945, gli Alleati stringono nella morsa i Tedeschi, che – ormai alle strette – usano i campi di concentramento e gli stessi prigionieri come scudi umani. Poi, finalmente, la notizia della caduta di Dresda (è il 20 Aprile 1945): il Reich si sfalda come un castello di carte in caduta. Ma non è finita: il ritorno a casa è ancora un miraggio, continuamente rinviato da spostamenti logistici da un campo all’altro.
Quando ai primi di settembre 1945 Amoretti giunge finalmente a Torino, dopo un lungo viaggio a bordo di una tradotta francese, con ripetuti scali e cambi di convoglio, si rende conto (come succede del resto a tutti i reduci) che gli Internati Italiani sono stati ormai dimenticati. Parlare di sé e delle dolorose esperienze provate nei Lager imbarazza chi parla e chi ascolta; e poi ci sono altri eroi che hanno contribuito in modo più concreto alla Resistenza, alla Liberazione e alla Vittoria; ci sono migliaia e migliaia di altre vittime che hanno subito violenze ben più cruente e spietate. Gli Internati sono considerati quasi dei privilegiati, esenti dalla lotta della Resistenza e dagli scontri a fuoco diretto con il nemico: spesso sono giudicati come dei collaboratori di Hitler. Nulla di più umiliante e mortificante. E invece sono stati anch’essi degli eroi, schiavi di Hitler, scheletri viventi privati di dignità, dei resistenti, soldati d’onore che non hanno ceduto alle lusinghe dei loro carcerieri affinché si schierassero dalla parte del totalitarismo, delle discriminazioni razziali e dell’annientamento della persona umana.
Molto interessanti ed espressivi gli schizzi e i disegni realizzati da Guido Amoretti e da Marcello Tomadini, che sono stati proiettati in sala, a supporto delle letture e dei commenti della relatrice, ed a testimonianza delle difficoltà e delle traversie della vita nei Lager di internamento.
Una conferenza che si è dimostrata anche un monito. E ancora risuona, ai giorni nostri, quel coro di 650.000 no al Nazismo e alla Dittatura di altrettanti soldati italiani, e noi dobbiamo dare memoria e onore a quelle eroiche voci, per evitare che certi soprusi e certe brutture possano ripetersi in futuro prossimo o lontano.