Il progetto Monferace riporta il Grignolino ai fasti del passato
PONZANO. La presentazione a giugno a Ponzano Monferrato dell’annata 2015 del Monferace, la prima in assoluto di questo vino prodotto con uve Grignolino al 100%, ha riportato al centro dell’attenzione l’ambizioso progetto di rivalutazione del rosso astigiano e monferrino, che un tempo godeva di grande prestigio, al pari dei Nebbioli e delle Barbere, ma che è stato poi relegato a una posizione di marginalità nell’ambito della produzione vinicola piemontese.
La volontà di restituire al Grignolino il posto che merita nel panorama vinicolo del Piemonte si concretizza nel 2016 quando viene fondata, per iniziativa di Ermanno Accornero, vignaiolo di Vignale Monferrato, e di altri undici produttori, l’associazione Monferace, costituita con l’obiettivo di valorizzare il vitigno, proponendo una vinificazione in purezza e un lungo invecchiamento, sulla base di un apposito disciplinare. Le aziende aderenti al progetto sono distribuite tra l’Astigiano e il Monferrato, territori di riferimento delle due Doc attualmente riconosciute (oltre al Piemonte Grignolino), il Grignolino d’Asti, il cui cuore storico pulsa tra Portacomaro e Migliandolo, e il Grignolino del Monferrato Casalese.
L’associazione, che ha sede nel castello di Ponzano, a poca distanza dal Sacro Monte di Crea, porta nel nome il richiamo alle radici antiche del territorio che ne è la culla. Il toponimo Monferace, che è anche il nome scelto per il vino con un’operazione simile a quella compiuta per il Barolo da Nebbiolo o per il Gavi da uve Cortese, compare in un testo cinquecentesco scritto dal bolognese Leandro Alberti, frate domenicano, teologo e storico, che fa derivare il vocabolo Monferrato, oggi adoperato in senso geografico per designare una vasta area in prevalenza collinare compresa tra le province di Asti, Alessandria e Torino, da Mons ferax, Monferace, nel significato di territorio fertile, ricco di messi. Si legge infatti nell’opera che il nome, da cui avrebbe tratto origine l’odierno “Monferrato”, è rivelatore della “ferocità (fertilità) dei piccoli colli che qui si ritrovano, li quali tanto gagliardamente producono i frutti e le cose necessarie per il vivere umano”.
Tra le altre ipotesi che spiegano l’origine del nome Monferrato, da alcuni fatto derivare da Mons pharratus, con riferimento alle coltivazioni di farro praticate anticamente in zona, o da Mons ferratus, per i ferri lasciati dalle legioni di Cesare in transito verso l’Oltralpe, vi è poi una versione popolare incentrata sulla figura di Aleramo, personaggio al confine tra storia e mito rappresentato come il “fondatore” del Monferrato in quanto antenato eponimo della dinastia marchionale degli Aleramici, che governò questi territori sino al 1305, quando morì l’ultimo marchese, Giovanni I, lasciando la successione ai nuovi signori, i Paleologi, appartenenti a un ramo bizantino.
Nei decenni centrali del X secolo il giovane Aleramo venne investito per volontà di re Berengario II e dell’imperatore Ottone I del governo di una vasta regione, organizzata in marca, estesa dalla Liguria occidentale al Tanaro, e dalla sua discendenza originò la dinastia degli Aleramici del Monferrato, attestati per la prima volta con questo predicato (marchesi “de Monteferrato”) nella prima metà del XII secolo. Le cronache di corte esaltarono le gesta di Aleramo, contribuendo a proiettarne la figura in una dimensione quasi mitica, ed è qui che s’inserisce la versione leggendaria del nome Monferrato. Aleramo avrebbe infatti ricevuto dall’imperatore il diritto di governare su un territorio di ampiezza pari all’area che avrebbe saputo delimitare cavalcando per tre giorni: mancandogli gli attrezzi per ferrare il cavallo, egli utilizzò allo scopo un mattone, mon in piemontese, termine che, accostato a frà nel senso di ferrato, diede origine a Monfrà, Monferrato, per designare l’insieme di terre a lui affidate, destinate con il tempo ad aumentare in numero e vastità.
Tornando al Grignolino, vitigno celebrato in Tera Monfrin-a dal poeta Nino Costa, che lo esalta come rappresentativo del Monferrato insieme con il Barbera (il vino è profumato, di colore “come i rubin” e “bocant come ‘n basin”), risulta inserito per la prima volta in un libro di ampelografia nel 1798 ad opera del conte Nuvolone-Pergamo, che lo definì “Nebieul rosé”, reputandolo ottimo se mescolato con Freisa e Bonarda, ma la presenza della varietà in Piemonte è molto più antica. Fu il Gallesio, esperto botanico, a suggerire agli inizi dell’Ottocento l’identificazione del Grignolino con le uve Berbesine, di cui si trova menzione per la prima volta, come annota la ricercatrice Enza Cavallero, nei cartari dei canonici casalesi di Sant’Evasio che alla metà del Duecento, dando in affitto un gerbido, imponevano di piantarlo de bonis vitibus berbexinis.
La coltivazione del Berbesino/Grignolino era un tempo praticata su una superficie molto più vasta di quanto non sia oggi e dalle sue uve si ricavava un vino di norma destinato all’autoconsumo dei mezzadri, ma, laddove veniva prodotto con maggior cura per la qualità, era considerato “di classe” e adatto all’invecchiamento, tanto da giustificare il suo inserimento tra “i vitigni più preziosi della nostra regione” (Giovanni Dalmasso).
Il processo di emarginazione del Grignolino ebbe inizio con la fillossera di fine Ottocento: quando si trattò di ricostituire il vigneto piemontese, falcidiato dal terribile insetto, a determinare le scelte dei contadini furono soprattutto considerazioni d’ordine pratico, legate alla produttività o alla resistenza alle malattie. Il Grignolino, delicato e difficile da gestire, subì una regressione, sostituito da altre uve più produttive e robuste, come il Barbera. Il coltivatore monferrino era consapevole della delicatezza e imprevedibilità del vitigno, soggetto a difformità di maturazione anche all’interno dello stesso grappolo, e riservava infatti per consuetudine al Grignolino la parte sommitale delle colline, quella più asciutta e soleggiata, con le migliori condizioni fitosanitarie. Inoltre, il vitigno, per la buccia spessa e il gran numero di vinaccioli, non ha mai incontrato il favore del mercato come uva da mensa, tanto che in certe zone lo si piantava attorno alle vigne di altre varietà come uva “di cinta”, in maniera tale da disincentivare i furti.
Nella rappresentazione (sbagliata) del Grignolino come vino leggero, da bere giovane, hanno sicuramente inciso, oltre al tipo di vinificazione, i caratteri cromatici. Il colore del vino appare poco concentrato, rubino o granata chiaro, privo di nuances violacee e con venature aranciate se invecchiato, e questo non ha giocato a suo favore, avvalorando l’abitudine di assemblarlo con vitigni coloranti, cosiddetti teinturiers, come Barbera e Freisa, capaci di dare stabilità e intensità. Inoltre, per ovviare alla ruvidezza tannica del Grignolino, si optava spesso per la macerazione breve, da cui si traevano vini leggeri, con poco alcool, destinati a un consumo veloce.
L’importante dotazione tannica della varietà, dovuta in gran parte alla numerosità dei vinaccioli, appare collegata con le ipotesi sull’origine del nome. Mentre la versione scherzosa lo fa derivare dal verbo piemontese grigné, nel significato di ridere, evocando un effetto euforico derivante dal suo consumo, appare più plausibile la tesi che fa invece discendere il nome dell’uva proprio da una sua caratteristica varietale, la presenza nell’acino di vinaccioli (dai tre ai cinque) in numero superiore ad altre uve. In piemontese il vinacciolo si designa infatti con il vocabolo grignòla, da cui probabilmente Grignolino.
Con il progetto Monferace si è voluto dunque restituire dignità e importanza a un vitigno che, pur vantando nobili origini e grandi potenzialità, ha avuto la sfortuna di incorrere in una serie di fattori che ne hanno penalizzato l’immagine e limitato i consumi a cerchie di consumatori abituali, in prevalenza concentrati tra Piemonte, Lombardia e Liguria, dove da sempre è apprezzato per la possibilità di abbinarlo a piatti di pesce.
I dodici produttori riuniti nell’associazione hanno concepito un prodotto capace di riproporre, attualizzandole, quelle caratteristiche che avevano fatto apprezzare il Grignolino sulle tavole dei sovrani, in particolare i Savoia, e che l’avevano reso protagonista dei primi esperimenti di spumantizzazione. Il vino Monferace, ricavato da uve selezionate e raccolte soltanto nelle annate giudicate migliori, viene sottoposto a un lungo periodo di affinamento, pari a 40 mesi, di cui almeno 24 in botte di legno. Alcuni viticoltori scelgono poi di prolungare l’invecchiamento in bottiglia, per ottenere un vino più elegante, preservando però i suoi caratteri tipici, tra cui la punta di astringenza, dovuta ai tannini, e il finale mandorlato.
Tra gli obiettivi dei produttori aderenti vi è anche la valorizzazione del terroir, cioè quel particolare mix di varietà, clima, terreno e intervento dell’uomo, che influenza le caratteristiche di un vino. Ne è derivato un meticoloso lavoro di mappatura dei vigneti, censiti e iscritti nell’Albo del Monferace, tenuto dagli associati. La composizione dei suoli nel territorio di produzione del Grignolino varia a seconda delle zone: tendenzialmente limosi, argillosi o arenacei i terreni del Casalese, compatti e di colore bianco o grigio chiaro, in prevalenza leggeri, sciolti e sabbiosi i suoli dell’Astigiano (sabbie astiane) con marne sulla destra Tanaro e una consistente presenza di fossili, che rimandano al mare padano del Pliocene. La mutevolezza delle condizioni pedoclimatiche rende quindi necessaria l’operazione di mappatura, in maniera tale da riconoscere a ciascun vino la sua specifica e irripetibile fisionomia.