Vincenzo Virginio, il “Parmentier piemontese” che diffuse l’uso alimentare della patata
Nel cuore dell’antica Torino, al civico 3 di via della Basilica, si poteva ammirare sino a qualche tempo fa una lapide posata il 1° dicembre 1895 per iniziativa del Comune in memoria dell’avvocato cuneese Giovanni Vincenzo Virginio, celebrato nell’epigrafe come “insigne filantropo” e “valente agronomo”. La targa in pietra, rimossa anni or sono per lavori di restauro dello stabile e purtroppo mai più ricollocata (c’è chi dice sia andata in frantumi durante il trasporto), sintetizzava così l’opera e i meriti di Virginio (sbagliandone però la data della morte, avvenuta il 4 maggio e non il 5 maggio): “Vincenzo Virginio nato in Cuneo nel 1752 morì in questa casa, già ospedale Mauriziano, il 5 maggio 1830. Insigne filantropo, valente agronomo, in anni di funesta carestia introdusse primo in Piemonte la cultura della patata. Per iniziativa della Società Operaia “La Novella”, col concorso del Municipio di Cuneo, del Comizio Agrario di Torino e di privati cittadini”.
Virginio, nato a Cuneo nel 1752, s’era laureato in giurisprudenza a Torino, scegliendo di esercitare l’avvocatura, ma, come annota un suo biografo, Paolo Gerbaldo, ben presto lasciò prevalere sulle prospettive di prestigio sociale garantite dalla professione forense la passione giovanile per l’agricoltura e l’agronomia e, abbandonato il foro nel 1782, impegnò energie e cospicue risorse finanziarie, tanto da dissipare il patrimonio di famiglia e ridursi in povertà, nella “ricerca della pubblica felicità e della maggior utilità per la sua patria piemontese”. Fu così che Virginio da avvocato “divenne agronomo e filantropo” ed è oggi ricordato come colui che diffuse in Piemonte, grazie a un’infaticabile opera di divulgazione e propaganda, l’uso alimentare della patata, già introdotta da tempo in Europa, ma ancora guardata con diffidenza da medici, contadini e popolazione in generale perché ritenuta inadatta alla dieta umana.
La patata, tubero originario della regione andina, capace di adattarsi alle alte quote e di crescere anche in terreni magri e a forte pendenza, fa parte del corposo gruppo di piante di uso alimentare giunte in Europa dalle Americhe: insieme con il mais, fu quella che modificò in maniera più incisiva il modo di alimentarsi degli europei. Conosciuta già nel Cinquecento, non compare però, allo stesso modo del mais e del peperone, nei cesti di frutta e ortaggi raffigurati dalla pittura rinascimentale di genere, a dimostrazione dell’ostilità con cui il tubero venne inizialmente accolto e delle resistenze opposte alla sua coltivazione. Crescendo sottoterra ed essendo sgradevole d’aspetto, la patata era infatti considerata come “radice del diavolo”, non adatta al consumo umano e utilizzata al massimo come foraggio, da destinarsi all’alimentazione animale e all’ingrasso dei maiali.
Inoltre il consumo della patata era sconsigliato dai medici, che ritenevano il tubero capace di sprigionare sostanze nocive per l’uomo, e in effetti, se conservata in modo scorretto, in luoghi esposti alla luce, la patata sviluppa la “solanina”, un glicoalcaloide tossico. Il mondo contadino per molto tempo continuò a preferire nella dieta quotidiana ortaggi come cavoli e rape, ignorando le qualità nutrizionali della patata, che solo in una fase successiva giunse a “colonizzare” vaste regioni d’Europa, come l’Irlanda, dove finì per costituire dalla seconda metà del Settecento la base dell’alimentazione contadina. Proprio nell’isola di San Patrizio si diffuse prima che altrove la peronospera della patata, malattia che distrusse interi raccolti: il suo propagarsi, unitamente alle politiche economiche del governo britannico guidato da lord John Russell, fu alla base della Grande Carestia irlandese del 1845/1852, che causò centinaia di migliaia di morti per fame e la massiccia diaspora irlandese verso le Americhe e l’Australia.
In Piemonte, come scrive Valter Careglio in “Storie pinerolesi”, i primi esperimenti di coltivazione della patata vennero compiuti nelle valli valdesi, dove il tubero risulta già introdotto nel 1630 per iniziativa dell’inglese Lord Morton, ambasciatore alla corte sabauda, che intratteneva rapporti con la locale comunità protestante. La precoce comparsa del tubero nella valle di Luserna risulta però limitata a coltivazioni orticole ad uso domestico, mentre l’estendersi della coltura su larga scala avvenne molto più tardi, a partire dai primi decenni dell’Ottocento. Proprio i Valdesi sono considerati gli artefici dell’introduzione della patata nella Germania meridionale, territorio in cui una parte di loro s’era stabilita tra il 1685 e il 1730. Suscita curiosità anche la storia semantica del tubero che oggi chiamiamo in italiano “patata”: ancora nel primo Ottocento in Piemonte era designato come “pomo di terra”, dal francese “pomme de terre”, mentre in alcune aree piemontesi, ad esempio il Pinerolese e nell’Ossola, lo si definisce ancora oggi con il vocabolo “trifola”, lo stesso termine usato per indicare il tartufo, così come in Savoia, dove si usa chiamarlo “tartifle” (da cui il nome del piatto “tartiflette” a base di patate, cipolle, reblochon e pancetta) e nel Delfinato, in cui è detto “truffe”.
Dopo secoli di scarsa considerazione fu quindi il cuneese Giovanni Vincenzo Virginio, che aveva intuito le grandi potenzialità nutrizionali del tubero, a scommettere sulla diffusione della patata nell’agricoltura piemontese, investendo ingenti risorse in questa sua personale “Crociata”. Virginio fu tra i promotori della Società Agraria di Torino, istituita da re Vittorio Amedeo III di Savoia nel 1785, allo scopo, come si legge nel testo del primo Statuto, di “promuovere a pubblico vantaggio la coltivazione dei terreni situati principalmente nei felici domìni di Sua Maestà” attraverso il rinnovo delle tecniche agrarie e la sperimentazione di nuove colture. In sintonia con questi propositi il Virginio iniziò a sperimentare la coltivazione della patata nella campagna di Pinerolo, sui terreni della cascina Missegla di Riva, facendo confluire i risultati delle ricerche in una pubblicazione stampata nel 1799, il “Trattato di coltivazione delle patate o sia pomi di terra volgarmente dette tartiffle”.
Di fronte alle perduranti diffidenze, l’avvocato cuneese si spese in prima persona per divulgare le virtù alimentari delle patate, regalandole alle dame della nobiltà torinese, dopo averle confezionate in eleganti scatole, e distribuendo gratuitamente il tubero nei mercati di Cuneo, Savigliano, Susa e Torino. Come riporta Alberto Viriglio in “Torino e i Torinesi” la prima comparsa dei “pomi di terra” sul pubblico mercato di Torino (l’area mercatale destinata alla vendita degli ortaggi era piazza delle Erbe, oggi piazza Palazzo di Città) risale al 26 novembre 1803, quando Vincenzo Virginio si mise a distribuirli “avendone coltivati in gran copia e trovandosi costretto a regalarli per la ripugnanza d’ognuno a farne compra come di un cibo non creduto a quei tempi degno dell’umana specie” (Diario storico, Torino, 1817).
Chiamato per tre anni, dal 1807 al 1810, durante l’occupazione napoleonica, a insegnare scienze naturali e agronomia nel liceo di Zara in Dalmazia, vi organizzò anche l’orto botanico sperimentale e redasse migliaia di fogli scritti e illustrati che sono oggi raccolti nel “Fondo Virginio”, conservato nella città croata. Il Virginio fece poi ritorno a Torino, ottenendo per decreto nel 1812 una pensione annua di 500 lire, poi confermata da re Vittorio Emanuele I, per i servizi resi allo sviluppo dell’agricoltura. Dopo la morte della moglie, Maddalena Fabre, rimasto solo e in ristrettezze economiche, peggiorò nello stato di salute fino ad essere internato, nella primavera del 1830, nel reparto incurabili dell’Ospedale dei Santi Maurizio e Lazzaro, in via della Basilica. Spirò il 4 maggio, guadagnandosi per i meriti acquisiti l’appellativo di “Parmentier piemontese” perché, come aveva fatto per la Francia il barone Antoine Agustin Parmentier (1757-1813), farmacista militare e agronomo al servizio di re Luigi XVI, anche l’avvocato cuneese svolse un’opera di divulgazione che si sarebbe rivelata essenziale per la diffusione della patata nell’agricoltura del Piemonte.
Tra le tante specialità alimentari piemontesi che vedono protagonista la patata, di cui oggi si coltiva un’ampia gamma di varietà, ne ricordiamo due, che testimoniano, insieme a molte altre, il ruolo fondamentale giocato dal tubero nel sostenere la dieta di contadini e montanari: il salampatata o salam ‘d patata, tipico del Canavese e di alcune aree del Biellese, e la “pratahapla”, specialità ossolana di tradizione Walser.
L’impasto del salampatata si compone di due ingredienti essenziali, tagli di carne suina, in particolare pancetta e guanciale, e le patate bollite, aggiunte in percentuali sino al 40/50% del totale. L’insaccato, oggi divenuto una specialità ricercata, preparata artigianalmente e insaporita con spezie come pepe, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, nasce in ambito contadino come risposta all’esigenza di sopperire alla scarsità di carne in periodi di magra, adottando l’escamotage di mescolarla con le patate. La “pratahapla” designa invece una specialità Walser della val Formazza, segnalata anche all’Alpe Veglia e in val Divedro, che combina in un unico piatto le patate, le cipolle e il formaggio. La robusta pietanza alpina si prepara come segue: dopo aver lessato le patate, senza sbucciarle, lasciandole a raffreddare e rassodare per un’intera notte, la mattina si provvede a schiacciarle con una forchetta, senza però ridurle a purea, mettendole poi a cuocere con il burro e le cipolle affettate. Quando l’insieme risulta ben amalgamato, si aggiunge il formaggio tagliato a pezzetti, di solito una toma ossolana di media stagionatura, lasciando che sciolga a fuoco lento, per poi trasferire la “pratahapla” in una pirofila da mettere in forno per qualche minuto.