Stefano Quaglia, il pittore di Borgo San Paolo dal tocco romantico
Paesaggi, nature morte e ritratti che potrebbero essere stati dipinti dai grandi Artisti piemontesi dell’Ottocento
TORINO. Possono lo stile di vita di quaranta o cinquant’anni fa e il microcosmo culturale di un tipico quartiere operaio torinese ancor oggi influenzare l’opera di un artista contemporaneo, nato sul finire degli Anni Sessanta, quando il suono sibilante delle sirene delle fabbriche, e i tonfi sordi del maglio, davano un ritmo convulso alle giornate di lavoro? Io credo di sì.
Stefano Quaglia, residente dalla nascita in Borgo San Paolo, vive e lavora ancora lì, proprio davanti alle vestigia degli ultra centenari stabilimenti Lancia: frammenti di una fabbrica dal filante stile art déco, dove quattro o cinque decenni orsono, centinaia di tute blu, ancora sfornavano ogni giorno schiere di Appia, Flaminia, Flavia e Fulvia. Oggi, la ex fabbrica è soltanto uno spazio immenso, quasi completamente svuotato dei suoi antichi reparti e delle sue officine: muto dei loro rumori. Un locus tra il metafisico e l’angosciante, astratto, orfano degli odori di morchia, di lubrificante, di fumo di motori in prova e spoglio del formicolante via vai di operai e impiegati, oggi percorso dai lenti spostamenti delle macchine movimento terra, tra gli sparsi arbusti spontanei e le diffuse erbacce selvatiche. Può questa realtà squallida e per certi versi desolante, essere fonte di contemplazione e di ispirazione per l’anima e la mente di un artista? Anche a questa domanda, io rispondo di sì.
Personalmente credo infatti che quella cultura in cui Stefano Quaglia, più o meno consciamente, si è formato, non possa non aver influenzato (ed ancora influenzare) le sue ispirazioni artistiche, indirizzando il suo estro a coltivare uno stile non convenzionale, come non convenzionale è il carattere di chi lavora (o ha lavorato) in un quartiere come Borgo San Paolo. Qui è ancora presente il senso di appartenenza dei residenti, e l’ammirazione per una cultura sociale che trova il suo fondamento nelle radici della storia, ma che pur è proiettata dinamicamente nel futuro. Ammirazione per il passato, dunque: un passato riletto (e contemplato) però nell’intento di costruire il presente e il futuro.
Così è l’arte di Quaglia, che è indubbiamente un pittore contemporaneo, ma non convenzionale, e che sa prendere spunto dal mondo di oggi, ma senza tradire quei canoni classici che non passano mai di moda. Fin dal 2003, Quaglia dipinge con uno stile che al giorno d’oggi non è così diffuso, ed anzi può apparire insolito; ma è proprio per questo che appare affascinante: lo potremmo allora forse definire un artista neo-romantico.
Comunque lo si voglia definire, Stefano Quaglia è artista di razza e a tutto tondo: è regista professionista (ha firmato decine di programmi televisivi, culturali e di intrattenimento). Come regista teatrale, vanta collaborazioni con uomini di spettacolo come Gipo Farassino, Massimo Scaglione, Margherita Fumero ed Enrico Beruschi, Mario Brusa, Raf Cristiano, Bruno Baudissone, Beppe Novajra ed altri ancora. Per la Regione Piemonte ha realizzato numerosi documentari per valorizzarne le primizie culturali ed artistiche, e le bellezze naturali. È anche un appassionato esperto di musica popolare e tradizionale piemontese, che ha imparato ad amare nello studio di registrazione di suo padre Giorgio Quaglia. Ma è nella pittura che da almeno vent’anni Stefano ha trovato la sua ragione di vita.
Per dirla con le parole di Bruno Baudissone, critico musicale e compositore, con cui Quaglia ha avuto modo, in più occasioni, di collaborare, nelle sue opere “traspare la contemplazione quasi mistica della impareggiabile bellezza del creato, che si traduce nella ricerca meditata di particolari che spesso fuggono ai più, ma che da soli valgono ad affermare l’assoluta superiorità della natura”.
È proprio dalla contemplazione spirituale e raccolta che Quaglia trae l’ispirazione per la sua arte: nature silenziose, donne e contadini che lavorano nei campi, paesaggi nostrani che riportano a certi suggestivi dipinti di Pellizza da Volpedo, o alle tempre in chiaroscuro di Massimo D’Azeglio. C’è il garbo, il gusto, la sensibilità degli artisti piemontesi dell’Ottocento, ma soprattutto c’è l’uomo del terzo Millennio, dall’animo pudico e contemplativo, che traspare da ogni particolare delle sue opere.
La lettura dei suoi quadri induce alla quiete e alla pace interiore. Una comunicazione diretta da anima ad anima, ma sottovoce, persino un po’ timida e schiva, com’è nel carattere dell’artista, eppure intensa, pregnante, diretta, e che infonde gioia di vivere e testimonianza di fede. E non può essere che così per un artista, che guarda caso, è anche un salesiano cooperatore.