Torino: alla scoperta del Bogo, singolare protagonista dei carnevali del passato
C’è qualcosa di folkloristico e nello stesso tempo di esoterico nella figura del Bogo: un singolare protagonista dei carnevali torinesi del passato. In pratica una sorta di creatura mostruosa, portato per la città con la funzione di strappare risa e lazzi: una sorta di figura allegorica, tipica delle feste organizzate in occasione dei festeggiamenti del Carnevale, che rientravano nella cosiddette Giandujeidi. Questo fantoccio divenne un simbolo, una specie di nume grottesco, ma bonario, che diede vita a un vero e proprio Ordine, che rapidamente raccolse adepti organizzati gerarchicamente. L’origine del Gran Bogo sarebbe da ricercare nel viaggio a Parigi del pittore Carlo Pittara – uno dei fondatori della cosiddetta “Scuola di Rivara” – , il quale ritornò nella capitale subalpina con alcuni pupazzi gonfiabili. Uno di questi, “panciuto, con un testone spropositato”, venne scelto per fungere da divinità selvaggia in uno spettacolo a sfondo esotico e battezzato col nome di Gran Bogo. Questo personaggio incontrò grande popolarità, trovando un seguito di pubblico in tutte le classi sociali. Il Gran Bogo ebbe anche un inno ufficiale, di cui venne appositamente scritta la musica.
Va ricordato che sotto l’egida del Gran Bogo vennero organizzati grandi carnevali nelle vie e nelle piazze cittadine, famosissimi ben oltre i confini regionali: per esempio, in piazza Vittorio e piazza Castello furono allestite delle scenografie di eccezionale livello a cui parteciparono attivamente molti artisti torinesi. Il Bogo ci pare suggerisca l’immagine di una figura che forse oggi non sfigurerebbe nel cinema d’animazione o, forse ancor meglio, nei videogiochi.
In occasione di una delle grandi feste organizzate in onore del Gran Bogo (10 novembre 1860), presso il Circolo degli artisti venne allestito un vero e proprio rituale che aveva come punto focale il singolare fantoccio: le cronache narrano che il pittore Felice Cerutti intonò un canto in onore di quella divinità in odore di paganesimo, che disse di aver imparato in montagna, sopra Fobello, mentre da un colle chiamato “Bogo” scendeva in direzione di Macugnaga:
“Lasseme vedde ‘l Bogo
lasseme vedde ‘l Bogo
e il Bogo non si vede
lantiro, lantero
e il Bogo si vedrà”.
Nel 1867 si costituì la Società del Bogo, fuori dal Circolo degli artisti, pur continuando a essere emanazione di questo; nel 1871 la Società Bogo si trasformò, in Ordine cavalleresco, ovviamente con i relativi cavalieri e tanto di Gran Maestro. Il ruolo dell’Ordine era contrassegnato da valenze per così dire goliardiche, in cui prevaleva una “missione” finalizzata a portare allegria. Tale impostazione non escludeva opere di beneficienza e solidarietà.
Tra i cavalieri dell’Ordine del Gran Bogo figuravano re Umberto, Quintino Sella, Giuseppe Giacosa, Lorenzo Delleani.
L’attività del ricercatore spesso lo conduce a imbattersi in figure, fatti, luoghi che hanno poco da dire se li si vuole analizzare sotto il profilo storico e sorretto da metodo scientifico: la loro limitata eloquenza è dovuta alla mancanza di fonti e documenti che ne consentano una corretta contestualizzazione. Tali soggetti possono però essere un ottimo materiale per il romanziere, che può affrancarsi dalla filologia e lasciare libero spazio alla fantasia: Il Gran Bogo è uno di questi soggetti. In questi anni abbiamo avuto modo di “passare” numerosi documenti e spunti provenienti da indagini in archivio e da altri canali ad alcuni narratori che poi li hanno trasformati in romanzo. Ci sentiamo di indicare anche il Gran Bogo come possibile fulcro per un’appassionante storia ambientata in una Torino che non c’è più.
Massimo Centini