Quella colorita espressione piemontese usata quando si resta senza un soldo e… con il sedere per terra
“Andé dël cul”: una curiosa locuzione che si riferisce all’antica pena della “pietra del vituperio”, riservata ai falliti e ai debitori insolventi
Pare che sia stato Giulio Cesare a istituire per primo l’umiliante pena della “pietra del vituperio”. Era praticata ai debitori insolventi e ai commercianti falliti: una pena che risparmiava la vita ai condannati, ma ne distruggeva per sempre l’immagine ed annientava ogni loro dignità personale. Condotti nel Campidoglio, denudati dalla cintola in giù, erano obbligati a gridare: cedo bona!, cioè che intendevano cedere i loro beni ai banditori d’asta, restando seduti con le natiche scoperte su di masso. Da quella posizione e in quella condizione avvilente, venivano sollevati per ben tre volte ed ogni volta lasciati cadere con violenza sulla pietra del vituperio.
A Padova, nel maestoso Salone del Palazzo della Ragione, affrescato da Giotto nella prima decade del Trecento, è conservata una di queste pietre della vergogna. Ha la forma di un grande calice monolitico, piatto in superficie, o se preferite di un grande timpano di pietra, su cui ai debitori insolventi, debitamente spogliati, veniva imposto di sedere sopra con le natiche al vento (la pratica sarebbe anche all’origine dell’espressione “restare in braghe di tela”): appesi per le mani, venivano poi sollevati di peso per tre volte, e altrettante volte lasciati cadere violentemente sulla pietra.
La pratica era diffusa in molti Stati della Penisola, ed anche in Piemonte, almeno fino al Settecento. E proprio da questa pratica, in Piemonte è nata l’espressione “andé dël cul” (letteralmente: andar dal culo), così come la variante “dé dël cul” (letteralmente: dare di culo), con il significato di andare in rovina, far fallimento.
A Torino la pietra del vituperio (una losa più sollevata rispetto al lastricato stradale) era posizionata ai piedi della vecchia Torre Civica (fatta demolire nel 1801 da Napoleone) all’angolo della Contrada di Dora Grossa (l’attuale Via Garibaldi) con via S. Francesco d’Assisi. Il malcapitato doveva tirarsi giù i calzoni e sbattere per tre volte il fondoschiena sulla pietra gridando “Cedo tutti i miei beni!”. Più o meno lo stesso rituale dell’antica Roma imperiale e della Padova del Medioevo.
Come ricorda Giuseppe Torricella in “Torino e le sue Vie” (ed. 1868) la pratica si svolgeva nei giorni di mercato e specialmente nel sabato. I commercianti che facevano bancarotta venivano esposti alla pubblica berlina su una pietra su cui erano costretti a sedersi “e, più propriamente, a battere il nudo deretano in presenza del pubblico, che numeroso assisteva a questo scandaloso castigo”.
Da questa umiliante pena nacquero le espressioni “dé dël cul sla pera”, “andé dël cul”, “esse con ël cul a tèra”, “bate ël cul sla pera bleuva”, con il significato di “andé a baron”, “andé a rabel” e “fé falita”. Che poi è un po’ come dire: ritrovarsi “al pian dij babi” (ovvero al piano dei rospi: più terra a terra di così!).
Nella foto di copertina: dipinto di Pietro Domenico Olivero (1679-1755), Mercato presso la torre dell’orologio, XVIII secolo, olio su tela, cm 122×68,5. Torino, Museo Civico d’Arte Antica e Palazzo Madama, inv. 0632/D
Sergio Donna | 30 Agosto 2022