La toccante storia di un fante della Divisione Acqui: dall’eccidio di Cefalonia ai lager di Tito
La resistenza dei militari della Divisione Acqui, di stanza nell’isola greca di Celafonia, che dopo l’8 settembre 1943 scelsero di non arrendersi agli ex alleati tedeschi e andarono incontro al massacro, è stata raccontata in vari film e fiction, ma anche in un libro pubblicato nel 2021 dalla Graphot di Torino. Nel 2005 su Raiuno ha avuto grande successo di pubblico Cefalonia, una miniserie diretta da Riccardo Milani, piena di partecipazione verso i soldati italiani, con le musiche di Ennio Morricone. Protagonisti Luca Zingaretti, Valerio Mastandrea, Claudio Gioè, Corrado Fortuna, Luisa Ranieri, Jasmine Trinca. Nel 2001 è uscito I giorni dell’amore e dell’odio, un lungometraggio d’esordio di Claver Salizzato, interpretato da Daniele Liotti, Liberto Rabal, Mandala Tayde, Ricky Tognazzi, Ugo Pagliai. Il film fu lodato anche dall’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Nello stesso anno al cinema è arrivato Il mandolino del Capitano Corelli di John Madden, tratto dal romanzo di Louis de Bernieres. Il film, interpretato da Nicolas Cage e Penelope Cruz, fu accompagnato da polemiche per la rappresentazione dei soldati italiani durante la seconda guerra mondiale.
Al di là degli stereotipi, l’eccidio di Cefalonia fu un crimine di guerra compiuto da reparti dell’esercito tedesco a danno dei soldati italiani, presenti sull’isola (stessa sorte toccò ad altri militari di stanza a Corfù), dal giorno in cui fu annunciato l’armistizio che sanciva la cessazione delle ostilità tra l’Italia e gli anglo-americani. In massima parte i soldati presenti facevano parte della Divisione Acqui, ma erano presenti anche finanzieri, carabinieri e marinai. La guarnigione italiana presente nell’isola greca si oppose al tentativo tedesco di disarmo, combattendo sul campo per vari giorni con pesanti perdite, fino alla resa incondizionata, alla quale fecero seguito massacri e rappresaglie nonostante la cessazione di ogni resistenza. I superstiti furono quasi tutti deportati verso il continente su navi che finirono su mine subacquee o furono silurate, con gravissime perdite umane.
Ma veniamo al libro. Tra i pochi che riuscirono a salvarsi vi fu il calabrese Domenico Fiorino, classe 1920. Al nipote Mimmo, molti anni dopo, raccontò quella sua tragica esperienza. E lo fece senza retorica e con onestà: la guerra vista da un ragazzo poco più che ventenne in balia prima dei tedeschi, poi del maresciallo Tito e dei tremendi lager gestiti dai suoi partigiani. E’ la storia di una lotta quotidiana per sopravvivere, quella che mette a nudo la fragilità umana e l’assurdità di tutte le guerre, tra fame, morte e speranza.
Mimmo Fiorino, nativo di Palmi (Rc), ma da moltissimi anni residente nel capoluogo piemontese, dopo aver raccolto la testimonianza dello zio ha voluto metterla nero su bianco. E’ nato così Voglio morire vestito da soldato – Storia di un fante della Divisione Acqui: da Cefalonia ai lager di Tito pubblicato dalla torinese Graphot. Come ci ricorda il curatore Massimo Novelli nell’esaustiva prefazione, la testimonianza di Fiorino “va oltre la tragedia di Cefalonia. La sua è una sorta di ‘Anabasi’, che in greco designa un lungo viaggio della costa all’interno di un territorio. Scampato prima alla malaria, a Zante, e successivamente al massacro di Cefalonia dopo aver combattuto contro i tedeschi, il giovane calabrese è imprigionato dagli uomini della Wehrmacht; è costretto a seguirli in terraferma, fino all’Albania, e in seguito alla Jugoslavia, dove viene catturato dai partigiani comunisti di Josip Broz, meglio noto come Tito, il futuro leader del Paese”.
Il giovane Domenico viene internato nel lager di Borovnica, in Slovenia, considerato tra i più bestiali campi di concentramento di tutta la Jugoslavia. Qui i prigionieri sono soggetti a pestaggi, punizioni, fucilazioni e condizioni igieniche e sanitarie miserevoli. Il giovane si deve abituare alle torture, ma riesce a sopravvivere. Il suo racconto è asciutto, senza nessuna concessione alla retorica e al pietismo. Le sue parole sono scarne ma esaurienti. Per lui e i commilitoni imprigionati, salvare la pelle diventa un imperativo categorico. Soltanto nell’estate del 1945 riesce a fare ritorno a casa, nella sua Calabria. “Quell’esperienza – ci racconta il nipote Mimmo – gli rimase attaccata alla pelle per tutta la vita. Ogni anno facendo ritorno in Calabria, mi raccontava qualche episodio del suo peregrinare tra Cefalonia, Albania e Jugoslavia, sino alla deportazione nel campo di Borovnica, facendomi ogni volta accapponare la pelle. Così alla fine decisi di raccogliere i suoi ricordi in un libro. Perché la sua tragica esperienza, così come quella di centinaia e centinaia di altri ventenni, non andasse perduta”.
Domenico Fiorino ci ha lasciati il 9 febbraio 2020, alla soglia dei 100 anni. Poco prima di morire ha voluto radunare i suoi parenti e lanciare un messaggio che è anche un augurio: “Speriamo che le guerre non ci siano più per nessuno”.
Mimmo Fiorino, Voglio morire vestito da soldato, a cura di Massimo Novelli, Graphot Editrice, Torino, pagine 96, euro 13.50
Piero Abrate