A colloquio con Angelo Marello, l’artigiano carrozziere che ama la poesia
TORINO. Dire che il lavoro sia la sua vita sarebbe riduttivo. Molto riduttivo. Anche se lui a 83 anni suonati continua tutti i giorni ad aprire la bottega a forma di hangar che ospita la sua carrozzeria. Riduttivo perché Angelo Marello non è un semplice artigiano. E’ prima di tutto uno sportivo, un filantropo, un mecenate, un artista. In tutto quello che fa e che dice. Una persona generosa, così generosa che ti pare di entrare in un libro della favole ogni volta che varchi la soglia al civico 56 di corso Tortona. Per chi ci mette piede la prima volta sembra di entrare in uno di quel vecchi set di Cinecittà dove si trova di tutto e ogni cosa è accatastata apparentemente in modo precario. Ma è un disordine apparente, perché chi si affida a lui e ai suoi ragazzi sa che il lavoro sarà eseguito ad opera d’arte. E non c’è disordine più ordinato e consapevole. E ti accorgi che gli ammacchi alla carrozzeria sono un pretesto per farti tornare una, due, tre volte, fino a che il lavoro sarà completato. E il veicolo sarà tornato come nuovo.
In quasi 70 anni di attività artigiana, prima nella vecchia officina di via Silvio Pellico e poi in corso Tortona, sono migliaia e migliaia i torinesi che hanno frequentato e continuano a frequentare il “salotto artigiano-letterario” di Angelo Marello. Amici ancor prima che clienti. E tra questi calciatori, ciclisti, uomini politici, imprenditori, liberi professionisti, semplici e all’apparenza anonimi impiegati.
Angelo è nato a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, ma da quando aveva 12 anni vive a Torino. Come il padre e il fratello Stefano fa parte di quella categoria di artigiani bohémien che non esistono più, di una tradizione che è andata perdendosi con il boom economico, annientata del tutto dalla globalizzazione. Lui però resiste imperterrito. Ieri come oggi. Non si limita ad aggiustare le auto, il servizio prevede altro. Soprattutto parole, storie e aneddoti antichi, ricordi che riaffiorano come in un libro Cuore scritto un secolo dopo.
Perché a 83 anni fa ancora tutto questo?
«Questa è la mia vita e non cambierei per nulla al mondo. Senza non potrei vivere. Cosa farebbero i ragazzi che lavorano con me se dovessi chiudere? Cosa farebbero con questa crisi imperante che continua ad attanagliarci, nonostante i politici ci raccontino che è finita? Resterebbe a casa, disoccupati. Non sono più dei ragazzini».
In questo modo ha deciso di rinunciare a una meritata pensione…
«Me la godo tutti i giorni, con tanti amici che vengono a trovarmi, anche soltanto per scambiare quattro chiacchiere sul Toro o sul Giro d’Italia che nei prossimi giorni arriverà in Piemonte. Pensare al passato crea irrimediabilmente nostalgia, talvolta anche qualche qualche rimpianto. E chi non ne ha di rimpianti? Ma ti fa sentire vivo, utile agli altri e a te stesso».
In tanti anni di attività, da lei è passata mezza Torino, compresa quella che conta. A partire dai primi cittadini…
«Sì, di sindaci ne sono passati tanti. Il primo in assoluto mi fare fosse stato Domenico Coggiola (eletto nelle file comuniste, ndr) sul finire degli Anni Quaranta. Abitava in via San Secondo ed era il nostro medico di famiglia. La gente lo amava. Negli ultimi anni camminava con difficoltà e attraverso una sottoscrizione la cittadinanza decise di comprargli una giardinetta. A raccogliere il testimone, fu l’avvocato Amedeo Peyron (esponente della Democrazia cristiana, ndr). Una persona colta, grande conoscitore della storia piemontese, molto elegante. Quando portava a riparare l’auto parlavamo spesso di rotonde. Era convinto che avrebbero aiutato la circolazione e ne fece costruire alcune, da quel punto di vista fu un vero precursore. Poi ce ne sono stati tanti altri come Luciano Jona e Giovanni Porcellana. Quest’ultimo, ricordo, aveva una Fiat 1800. Furono gli ultimi a frequentare l’officina di via Pellico, in quanto nel 1970 io e mio fratello Stefano decidemmo per esigenze di spazio di spostarsi in corso Tortona».
Ma anche a due passi dalla Dora avete continuato ad essere l’officina di fiducia oltre che dei sindaci torinesi, anche di personaggi del mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo…
«E’ così. In tempi più recenti abbiamo servito Diego Novelli, con il suo inseparabile Maggiolone Volkswagen, e Maria Magnani Noya, legatissima alla sua Lancia Appia. E ancora Valentino Castellani, che ancor oggi è un affezionato cliente. Poi Sergio Chiamparino ci ha affidato le sue Fiat, una Panda e una 16. Ho conosciuto anche Fassino con cui mantengo un ottimo rapporto, ma lui non viaggia in macchina. Con Chiara Appendino, invece, ci siamo incontrati di recente, ma non è una mia cliente. È la terza donna della storia a governare la città e non è un compito facile. In questi mesi sono successe tante cose, ma mi è parsa una brava ragazza. Un pensiero particolare concedetemelo per Gipo Farassino che è sempre stato un grande amico e una grande persona, oltre che un grande artista. Le sue canzoni resteranno per sempre nella storia della musica folk».
Che dire invece di due suoi grandi passioni, come il calcio e il ciclismo?
«L’avete detto voi: sono stati e continuano ad essere due grandi passioni. Con la bici, così come con il pallone è un legame atavico. Amo il Toro sin dai tempi degli Invincibili. Avevo i pantaloni corti ed ero arrivato da pochissimo da Santo Stefano Belbo. A San Salvario, dove vivevo, ricordo sfrecciare l’Aprilia di Mario Rigamonti che insieme a Martelli e Bacigalupo, tutti scapoli, formava il notissimo Trio Nizza. Erano compagni di squadra, ma soprattutto amici che condividevano un alloggio in via Nizza. Tra i ricordi che mi accompagnano c’è quello di una partita del 1948. Quel giorno al Fila i ragazzi giocavano contro l’Alessandria, con lo scudetto oramai cucito sulla maglia. Tra gli ospiti c’era un ex, Gallea, che chiese ai suoi vecchi compagni, in particolare a Mazzola, di non infierire. In effetti all’inizio la squadra palleggiò senza mai arrivare al tiro. Allora dalla tribuna il pubblico si spazientì e cominciò a urlare ogni cosa contro i calciatori. Alla fine il Torino vinse 10 a 0 e credo sia ancora un record nella massima serie. Badate bene, nonostante sia granata, ho intrattenuto anche buoni rapporti con alcuni juventini. Pochi ma buoni. Primo fra tutti Giampiero Boniperti. Una persona intelligente e un giocatore dal talento immenso. Sia con lui che con la sua famiglia continuiamo a sentirci, lo considero un mio grande amico».
Ma delle due ruote non ci dice niente?
«Il legame con il ciclismo è stato altrettanto coinvolgente come quello per il football. Da “gagno” amavo pedalare e seguire i grandi dell’epoca, Coppi e Bartali, ma anche i campioni di casa nostra come Conterno e Balmamion. Eppoi Nino Defilippis, che tutti chiamavano simpaticamente “el Cit”, che ci ha lasciati ormai otto anni fa. Sino ad arrivare a Guido Messina, grandissimo pistard e vincitore di cinque titoli del mondo nell’inseguimento. E, ancora, Italo Zilioli con il quale abbiamo ancor oggi un ottimo rapporto».
Lei è sempre stato molto legato a suo fratello Stefano. Con lui avete condiviso tutto: passioni e lavro…
«Purtroppo ci ha lasciati troppo presto. Era un grande lavoratore e si dilettava anche a scrivere poesie. Dei grandi amava Cesare Pavese, nato come noi a Santo Stefano Belbo. Gli abbiamo dedicato un concorso letterario in collaborazione con la Circoscrizione 6. La manifestazione sta crescendo di anno in anno e questo penso sia il modo migliore per onorarne la memoria. Alle premiazioni ci hanno onorato delle loro presenza nomi illustri nel campo dell’arte, della cultura, del sociale, della politica e ovviamente dello sport. In una edizione è stata presente e ci ha commosso Marina Coppi, la figlia del Campionissimo. Suo padre è stato un mito del ciclismo e a lui abbiamo dedicato un monumento nei pressi del Motovelodromo. Tornando al concorso, ci tengo a dire che la prossima edizione sarà dedicata all’immigrazione e all’abbattimento delle frontiere. Spazio verrà dato anche alle scuole, proprio perché riteniamo che i giovani debbano affrontare in modo sereno e coscienzioso questo argomento che fa parte del presente ma soprattutto del futuro del nostro pianeta».
Piero Abrate