Mestieri perduti: a Foglizzo un museo racconta la storia delle scope di saggina
Di origini antiche è a Foglizzo (To) la coltivazione della saggina e la successiva lavorazione con la produzione di scope. Attualmente sopravvive esclusivamente per la volontà di pochi artigiani mentre sino al dopoguerra rappresentava una fonte di reddito per buona parte delle popolazione.
A raccontare la storia di questa lavorazione è un apposito museo, intitolato “Dalla Saggina alla Scopa” e allestito all’interno dell’ex Chiesa di San Defendente, che testimonia e illustra la fiorente produzione di scope di saggina, attiva nel territorio foglizzese tra la fine dell‘Ottocento e la prima metà del Novecento.
L’esposizione consta di differenti strumenti utilizzati dal 1880 circa fino agli anni Cinquanta del Novecento nella lavorazione della scopa che coinvolgeva l’intero paese. In pratica, se d’estate la popolazione si divideva in artigiani e contadini, d’inverno anche chi lavorava nei campi si dedicava all’attività artigianale. La produzione, inoltre, interessava tutti, uomini e donne. Il museo ha sede in via Uberto I 75. Il museo è aperto al sabato dalle 15 alle 18 e la domenica dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18. Per informazioni: 011.9883501 oppure lo 011.9883404.
Una tradizione scomparsa da mezzo secolo
La materia prima dalla quale cominciava il processo era la saggina, una pianta erbacea alta fino a tre metri, dalla caratteristica infiorescenza a pannocchia, che veniva coltivata sempre a Foglizzo. La semina avveniva da aprile a metà maggio in zone esposte al sole e si raccoglieva a settembre, in luna calante, prima che la pianta andasse a seme, in pratica con il gambo ben formato ed il panicolo ramificato. Si poneva quindi ad asciugare in luogo fresco e ventilato, appesa a testa in giù.
Con i primi freddi si cominciava a produrre scope. Si iniziava asportando la granella, successivamente riutilizzata come mangime per il bestiame, dalla saggina. Dopo di che si creavano dei fusti più grandi ed altri più piccoli: i primi venivano posti internamente, gli altri venivano collocati all’esterno rispetto al manico, rigorosamente in legno, della nascente scopa. Il tutto venivano bloccati con il fil di ferro e con il cerchio al quale si aggiungeva anche un chiodo affinchè la scopa prendesse la forma desiderata. In seguito le donne intervenivano nella cucitura. A prodotto finito, si procedeva ad asportare le parti in eccesso con una taglierina che regolava le sommità. Gli scarti non si buttavano, ma venivano usati per realizzare gli scopini.
Ogni famiglia riusciva mediamente a realizzare dai cinquanta ai sessanta pezzi al giorno. Una volta che la lavorazione era terminata, le scope venivano caricate a gruppi di sei su grandi carri diretti in zone differenti, dalla Liguria alla Francia.
Piero Abrate