Al Museo delle risicoltura di Trino Vercellese si ripercorre la difficile vita delle mondine
Oggi in Italia non esiste praticamente più la figura della mondina e a malapena qualcuno ricorda i loro canti che echeggiavano per chilometri e chilometri lungo quello che è stato ribattezzato il “mare a quadretti”. Queste donne ebbero il coraggio di battersi per ottenere migliori condizioni di lavoro e le loro furono battaglie dure e senza esclusione di colpi e che consentirono anche ad altri settori di vedere garantiti i diritti garantiti a lavoratori e lavoratrici.
Alla Tenuta Colombara di Trino Vercellese, all’interno di una cascina edificata intorno al 1400, è stato creato dalla famiglia Rondolino un Conservatorio della Risicoltura, in cui la figura delle mondine ha un posto di rilievo e consente di mantenere viva la memoria storica su quella che è stata la loro vita. Nel corso degli anni questo vero e proprio ecomuseo è andato di fatto a rioccupare gradatamente i locali della cascina: i laboratori del fabbro, del falegname, del sellaio, della sarta, le abitazioni, la scuola, il dormitorio delle mondine. Ogni cosa è stata riposta dove era una volta, senza essere restaurata, come i locali stessi, per preservarne così tutte le ferite del tempo. L’ecomuseo è composto da due parti principali: il dormitorio delle mondine e alcune stanze dove sono state ricreati ambienti di vita di una riseria di metà Novecento. Oltre che Conservatorio, oggi la Tenuta Colombara è anche sede didattica distaccata dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e sede produttiva di Riso Acquerello.
Alla Tenuta Colombara è stata posta anche una particolare attenzione all’ambiente con il ripopolamento di pipistrelli e di molte specie di libellule, al fine di limitare il numero di zanzare nel modo più naturale. Il museo è visitabile solo su prenotazione chiamando il numero 0161.477832.
L’estenuante lavoro delle mondariso
Come ci ricorda Martina Tommai, “quello delle mondine era un mestiere che non s’imparava ma già si sapeva, tramandato da madre in figlia, quasi fosse scritto nel DNA”. In effetti, molte di loro arrivavano da altre zone: Lombardia, Veneto, Emilia. Alcune erano giovanissime, appena tredicenni, altre arrivavano alla settantina. Molte lasciavano a casa il marito e i figli piccoli per i mesi della stagione del riso. Spesso queste “forestiere” erano guardate con sospetto dalla gente del luogo, additate come donne di facili costumi, venute da lontano e senza il controllo della famiglia. Giungevano con mezzi di fortuna perché il viaggio costava, oppure con dei vecchi treni per il bestiame portando con sé un misero bagaglio.
A cavallo tra il XIX e il XX secolo (almeno fino agli Anni Sessanta), le mondine condividevano il loro spazio con rane, topi, bisce, sanguisughe e insetti. Ci si poteva ammalare di reumatismi e malattie alle vie respiratorie causate dall’umidità, a causa d’infezioni dovute al morso di qualche animale, di malaria. Inoltre si rischiava la cosiddetta febbre del riso, una malattia infettiva dovuta a un parassita, la leptospira bataviae, che causava febbre alta. Unica nota positiva era la presenza delle rane che le donne mettevano in tasca. La sera, quando i morsi della fame si facevano sentire, c’era chi si prodigava a cuocerle sul fuoco.
La sveglia era data da un caposquadra alle 4.30. Seguiva una rapida lavata nella fredda acqua della roggia, il fosso vicino alla cascina dove si sarebbero lavate anche le stoviglie. Gli uomini, direttamente impegnati nella monda del riso, erano pochi: si trattava soprattutto di cavallanti, al massimo quattro o cinque ogni cinquanta donne. Talvolta si camminava anche per 40 minuti prima di raggiungere la risaia, dove le lavoranti si disponevano in file parallele: una sottana oppure dei pantaloni tagliati e arrotolati sopra il ginocchio, delle calze a coprire un pezzo di gamba. Le braccia venivano avvolte da una camicia che veniva fermata con del filo di spago per proteggere la pelle dagli animali d’acqua e dal riso stesso, che con la sua spiga raspava e tagliava. I piedi erano nudi. Così, a testa in giù, in mezzo all’acqua fino al ginocchio, per 12 ore a mondare il riso, estirpando le piante infestanti che, raccolte in mazzetti, venivano passate di mano in mano dal centro di ogni fila fino alle estremità, e poi gettate nei canaletti di scolo laterali, al grido di “erba, erba”. Poi c’era il trapianto delle nuove piantine che venivano lanciate dai cavallanti.
Ogni tanto il padrone passava tra le file a controllare e il caposquadra distribuiva un mestolo di acqua. Mezz’ora di pausa per mangiare, sempre lo stesso pasto: riso e fagioli. Il riso veniva anche integrato alla paga, se i soldi non bastavano, e lo si portava a casa alle famiglie. Le mondine alleviavano il peso delle lunghe giornate intonando canti che riecheggiavano lungo tutta la pianura e che sono stati tramandati fino ai giorni nostri, a testimoniare una vita fatta di sacrifici.
Al termine delle lunghe giornate di lavoro le donne tornavano ai casolari, si strofinavano con il sapone e usavano le spighe del riso per eliminare dalla pelle il verde rilasciato da concime e acqua stagnante. Quelle che non crollavano dal sonno la sera ballavano davanti al fuoco o nelle osterie vicine. Essendo forestiere lontane da casa le mondine erano oggetto di scherno e gelosie da parte degli abitanti del luogo, che le consideravano libere e poco di buono.