Alla scoperta di Settimo Vittone, dove si è rinnovato il rito della Dësnalpà
SETTIMO VITTONE. Domenica 27 ottobre si è celebrata a Settimo Vittone, nel tratto canavesano della valle della Dora Baltea, la 19^ edizione della Dësnalpà, il tradizionale appuntamento che festeggia la discesa delle mandrie dagli alpeggi.
Marghé (conduttori delle mandrie) e bërgé (pastori di ovini e caprini) sono sfilati lungo le vie del paese, rallegrando il folto pubblico presente con la policromia delle composizioni floreali e dei nastri colorati che le famiglie degli allevatori tradizionalmente utilizzano per la decorazione dei capi bovini e con i variopinti campanacci, i cosiddetti rodon, che, risuonando tutti insieme in modo festoso (rodonà), segnalano l’arrivo degli animali.
La pratica della monticazione volta a sfruttare i ricchi pascoli delle alte quote, trova già attestazione in Piemonte nei cartari medioevali, risalenti al XII e XIII secolo, che documentano l’esistenza di alpeggi. Nel corso dei secoli il fenomeno della transumanza ha cambiato volto e modalità, soprattutto a partire da fine Ottocento con l’ampliarsi di mandrie e greggi, divenute più numerose e con maggiori esigenze da soddisfare.
Per uno sfruttamento ottimale dei terreni, in alcune vallate piemontesi è consolidata l’abitudine di far salire gli animali in modo graduale: in Val Pellice a inizio primavera ci si sposta dalle sedi invernali agli alpeggi delle quote medie, i cosiddetti “fourést”, mentre solo verso fine giugno è previsto il trasferimento a quelli più alti, detti “alp”. Lo stazionamento temporaneo in strutture intermedie, chiamate “tramut” (ma la terminologia varia a seconda delle aree linguistiche del Piemonte), è comunque pratica necessaria quando i pascoli alti sono ancora coperti in parte dalle nevi.
La salita delle mandrie in montagna consente di produrre i celebri formaggi d’alpeggio, vanto del Piemonte alpino. Proprio nel territorio di Settimo Vittone opera l’azienda agricola Nicoletta che ha sede nella frazione Cesnola, sovrastata dalle vestigia del castello appartenuto ai Palma di Cesnola, dove gli animali vivono in stabulazione fissa, alimentati con fieno di prato polifita e crusca, mentre nel periodo estivo vengono condotti all’alpeggio Rovarnero a oltre 1200 metri d’altitudine, al confine con la Valle d’Aosta.
L’alta qualità del latte prodotto influisce sulla tipologia e sul sapore dei formaggi proposti dall’azienda: tra questi segnaliamo la Toma d’alpeggio della valle di Trovinasse, ricavata dal latte di bovine di razza Valdostana pezzata rossa (la “rodze”) e nera (la “nèye”), alimentate con erba fresca dei pascoli siti alle pendici del Mombarone tra 1200 e 1500 metri d’altezza, la Toma alle erbe, che prevede l’aggiunta di peperoncino e cumico, e la Rovarnerina, formaggio che prende il nome dall’alpeggio Rovarnero.
Tipico prodotto dell’Alto Canavese è poi il Salignon, consistente in un impasto di tomette fresche sminuzzate (versante orografico destro della Dora) o di ricotta (nei paesi del versante sinistro) asciugata nei teli (seirass), che viene insaporito con peperoncino, cumino e sale (ma anche aglio, ginepro, finocchio, fiori secchi, spezie varie) e tradizionalmente consumato con l’accompagnamento di patate bollite o con le miasse, sfoglie di farina di mais cotte con ferri roventi a contatto con il fuoco del camino. Gli avanzi di tome e ricotte rimaste invendute o difettose venivano un tempo impiegati, al fine di evitare sprechi, per dare forma al Mortrett, prodotto molto salato e piccante (peperoncino e cumino) sottoposto ad affumicatura sulla cappa del camino oppure fatto stagionare per alcuni mesi e poi grattugiato.
Le tradizioni enogastronomiche di Settimo Vittone non sono limitate al solo settore caseario, ma si estendono alla viticoltura, praticata sugli scoscesi pendii montani, e alla coltivazione dell’olivo, entrambe favorite da un microclima particolare. Il soffio della tramontana, vento proveniente dalla valle d’Aosta, si rivela infatti utile nel contrastare l’umidità, mentre le rocce affioranti dalla montagna, unitamente ai pilastrini costruiti in pietra, servono ad accumulare calore nelle ore diurne, rilasciandolo di notte, e attutendo così l’effetto nocivo degli sbalzi termici tipici delle aree montane.
Osservando la parte alta del territorio comunale, dominata dalla Colma di Mombarone, si apre davanti agli occhi uno scenario di straordinario interesse paesaggistico, caratterizzato dalla sequenza di antichi terrazzamenti in pietra a secco che modellano i pendii esposti a sud, disegnando ciclopiche scalinate costruite dall’uomo per regolarizzare i fianchi montani ad uso agricolo. Dall’ingegno e dalla fatica dei contadini presero così forma vere e proprie architetture naturali, che Augusto Cavallari Murat paragonava a schemi romanici e gotici di logge continue e archetti ciechi per via della successione, tipica di questi vigneti, di pilastrini in pietra di forma tronco-conica, i cosiddetti pilon, su cui poggiano i graticci in legno (topion) utilizzati per sorreggere le viti e che devono essere abbastanza solidi da resistere ai forti venti della valle.
L’azienda La Turna si trova nella frazione Montestrutto, una manciata di case aggrappate a uno sperone roccioso che domina la strada e il corso della Dora e su cui sorge l’antico castello in pietra, d’origine vescovile ma passato ai Savoia nel XIV secolo, poi ricostruito in forme neo-medievali nel primo Novecento, inglobando i resti d’una torre eretta nel IX secolo a protezione d’un vicino monastero benedettino. L’azienda coltiva le uve Nebbiolo, da cui nel limitrofo comune di Carema si ricava il blasonato Carema Doc, e altre varietà tradizionali del Canavese, come Neretto e Barbera, che, sapientemente assemblate, concorrono alla produzione del Rampignè, vino rosso da tavola ideale come accompagnamento di antipasti caldi, primi sostanziosi, selvaggina e formaggi. Le olive, maturate sui terrazzamenti di proprietà aziendale e su terreni morenici ricchi di depositi detritici dell’antico ghiacciaio, danno vita ad un olio di qualità superiore, che nasce dalla frangitura effettuata nel Frantoio Comunale di Settimo Vittone, impianto ricavato dalla riqualificazione della vecchia peschiera (stabilimento ittico) inaugurata nel 1930 da Maria José del Belgio, moglie di Umberto di Savoia, principe di Piemonte.
In ambito culinario specialità tipiche di Settimo Vittone sono la zuppa di ajucche, erba di montagna (Raponzolo giallo) dai fiori viola raccolta negli alpeggi tra i 600 e i 2000 metri d’altitudine che solo in Canavese, sin dai tempi dei Salassi secondo la testimonianza di Plinio il Vecchio, viene impiegata in cucina per insaporire frittate e polente e per la popolare zuppa, e il suèt gris, variante della polenta concia arricchita con erbe selvatiche.
Settimo Vittone, località già nota ai latini, come rivela la prima parte del toponimo, che ne indica la collocazione al settimo miglio romano (ad septimum lapidem miliarium) da Eporedia (Ivrea) lungo la strada delle Gallie (l’etimologia di “Vittone” è invece incerta, forse di matrice celtica), non può infine trascurare il ricco patrimonio architettonico e artistico, a partire dall’importante complesso monumentale composto dalla pieve di San Lorenzo e dal battistero ottagonale di San Giovanni Battista, originario del IX secolo e considerato uno dei principali esempi di architettura “preromanica” in Piemonte.