La domanda di rito che si ponevano i ragazzi di quegli anni quando scendevano in strada o in cortile per giocare tra loro (dopo aver fatto ovviamente i compiti), era questa: “Giochiamo a bije?”. Domanda assolutamente retorica, che faceva tuttavia parte di un rituale. Giacché tutti avevano le tasche piene di bije, e non vedevano l’ora di giocarci (magari dopo aver tirato due calci al pallone, così, tanto per scaldare un po’ i muscoli), e spesso scendevano le scale di corsa per farlo. Le bije di vetro rimbalzavano nelle tasche dei pantaloncini corti dei ragazzi, e ad ogni scalino disceso, davano vita a tintinnii armoniosi: una melodia inconfondibile, dal suono cristallino e gioioso. L’alternativa più comune al gioco delle bije era quello delle “figiu”, o “figu”, ossia le figurine (quelle dei calciatori, per intenderci: Toro e Juve soprattutto). Il gioco con le figurine più diffuso (lasciatemi aprire un piccolo inciso) era “lo schiaffo”. Ogni giocatore (i giocatori potevano essere due, tre, quatto, o anche di più) puntava le sue figurine (tre o quattro a partita, a seconda della “posta” convenuta). Le figurine in palio venivano incolonnate una sull’altra come un mazzo di carte e poi riposte su uno scalino di pietra o di marmo. Poi, a turno, ogni giocatore doveva sferzare violente manate (gli schiaffi) – a mano nuda – alla base del mazzetto delle “figu”, in modo da creare un’onda d’aria d’urto tale da far ribaltare le figurine ammonticchiate. Più se ne ribaltavano e più se ne vincevano. Peccato che dopo un po’ i palmi delle mani diventavano roventi. E così si tornava al sacro gioco delle bije.
Ma quali erano i giochi con le bije? Erano moltissimi, ed erano veramente geniali per l’essenzialità e la chiarezza delle regole. La scelta del tipo di gioco era in funzione della maggior adattabilità di ciascuno di essi a certe particolari caratteristiche morfologiche del terreno di gioco (terra battuta, cemento, asfalto, selciato, presenza o meno di terriccio tra il sedime della strada e il cordolo del marciapiedi, vicinanza con eventuali canaline di scolo, tombini, ecc. ecc.). Il più popolare era il “cerchio”; seguiva il “pàpalo”, ma diffusissimo era pure il “truch e branca”, da giocarsi coi biglioni, meglio se d’acciaio. Si giocava anche “a muro” e “a canala”. Non è il caso, qui, di descrivere i dettagli del regolamento di ogni variante di gioco. Ognuna di essa aveva i suoi rituali, i suoi schemi e le sue strategie.
“Inquadrado” brevemente il profilo psicologico-tecnico di ogni avversario, ci si apprestava ad adottare le tattiche, le mosse e le contromosse più idonee in ogni partita. Il gioco delle bije era infatti anche un modo divertente per socializzare con i coetanei, per imparare a relazionarsi con il prossimo, scoprendo le diversità caratteriali, sociali e culturali di ognuno, e per confrontare le proprie esperienze con quelle altrui. In breve: un’opportunità continua di esperienze, di scambi e di crescita intellettuale.
Tempi lontani: tempi passati che non torneranno mai più. Di quell’epoca, è rimasta però un’espressione, che ancor oggi qualche anziano autentico piemontese ogni tanto si lascia scappare per sottolineare le difficoltà incontrate in un particolare momento, in cui tutto sembra andare storto oppure irrimediabilmente perduto. Quella locuzione è “Ciàu bije!”, retaggio del linguaggio infantile di chi aveva perso al gioco tutte le biglie in dotazione che si era portato da casa.
Visto con gli occhi di oggi, il gioco delle “bije” non era che un’innocua, innocente “ludopatia” di spensierati ragazzini nati in anni lontani. Forse è per questo che quel romantico gioco di strada e di cortile un poco ci manca.
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