Birra e birrifici nella vecchia Torino: Bosio & Caratsch, Metzger, Boringhieri
TORINO. Il consumo di birra a Torino vanta un’importante tradizione, anche se la scomparsa dei birrifici più rinomati, Bosio & Caratsch, Metzger e Boringhieri, chiusi nel corso del Novecento, ha in parte rimosso la memoria della produzione brassicola torinese, che solo in tempi recenti assiste a una nuova fioritura.
In un Piemonte legato alla cultura del vino, anche la birra ha svolto storicamente un ruolo significativo, le cui origini remote si fanno risalire al periodo proto-celtico, quando in area piemontese si producevano birre rosso-brune del tipo ceruisia o cervogia (da cui lo spagnolo cerveza), a base di orzo tostato o fumigato e aromatizzate con erbe. E’ datato al 560 a.C. il bicchiere rinvenuto nella necropoli di Pombia nel Novarese che reca tracce di birra scura: la scoperta, oltre a rappresentare la più antica attestazione materiale di birra a gradazione medio-alta in ambito europeo, ha consentito di ipotizzare, sulla base dei pollini analizzati, un uso precoce del luppolo come aromatizzante. Il ritrovamento fa supporre che il defunto, in un periodo in cui il vino era già noto ai Celti, prediligesse la birra e avesse voluto recare con sé, per allietare il viaggio verso l’aldilà, una scorta dell’amata bevanda.
In base alle norme attuali con il termine “birra” si designa una bevanda alcolica ricavata da tre ingredienti: i cereali, in prevalenza malto d’orzo o di frumento (in Germania risale al 1516 l’Editto della purezza, rimasto in vigore nei secoli successivi, che impose l’uso esclusivo di orzo, acqua e luppolo); il luppolo, principale amaricante e conservante naturale della birra (le prime coltivazioni di luppolo comparvero ad opera dei monaci in area boema e tedesca nell’Alto Medioevo mentre in tempi più antichi si ricorreva a erbe, spezie, bacche, cortecce); l’acqua, che costituisce circa il 90% del prodotto. Infine, è essenziale il ruolo dei lieviti, responsabili della fermentazione alcolica: i saccharomyces cerevisiae, che danno origine alle birre ad alta fermentazione, dette Ale, e i saccharomyces carlsbergensis, isolati nei laboratori della Carlsberg nel 1883, che intervengono nelle Lager, le birre a bassa fermentazione.
Il consumo di birra in Piemonte si tramandò nei secoli come abitudine elitaria, confinata alle tavole delle famiglie aristocratiche: alla corte sabauda nel Cinquecento è attestato l’uso d’una tipologia di bicchiere riservato proprio al consumo di “cervogia”, di cui era amante il duca Emanuele Filiberto. Occorre attendere l’Ottocento affinché la birra entri nelle abitudini alimentari di più larghi strati della popolazione, favorita dall’apertura di stabilimenti birrari che nella Torino di metà XIX secolo approfittarono del clima favorevole allo sviluppo manifatturiero. Il quartiere in cui s’insediò la maggior parte di questi birrifici, spesso gestiti da imprenditori d’origine svizzera o germanica, è il borgo San Donato, che già ospitava concerie e fabbriche di cioccolato. Qui la produzione risultava agevolata dalla disponibilità d’acqua, attinta dal Canale di Torino, derivazione del canale della Pellerina, che consentiva di produrre energia idraulica a basso costo.
Il primo birrificio a nascere in Piemonte e in Italia fu il Bosio & Caratsch, che aprì i battenti nel 1845 in via della Consolata per poi traslocare nel 1870 nel borgo San Donato in corso principe Oddone 81, dove nel primo Novecento lo stabilimento venne ampliato su progetto di Pietro Fenoglio. L’azienda, il cui motto era “Bona cervisia laetificat cor hominum” (la buona birra allieta il cuore degli uomini), venne fondata da Giacomo Bosio (Simone Caratsch si aggiunse in un secondo tempo), appartenente a una famiglia originaria dell’Engadina in Svizzera che s’era affermata a Torino, al tempo “città di corte con grandi proprietari terrieri e ancora poche industrie”, prima nell’arte della confetteria, poi come mastri birrai e infine nel settore cotoniero.
La qualità delle birre Bosio & Caratsch, basate “unicamente sull’uso di orzo e luppolo” e esenti da “ogni aggiunta alcolica”, tanto da essere raccomandate “dalle primarie notabilità mediche”, venne riconosciuta dall’assegnazione della medaglia d’oro sia all’Esposizione nazionale di Torino nel 1898, sia alla successiva Esposizione Internazionale di Torino del 1911. Lo stabilimento, che seppe tener testa ai fabbricanti austriaci e tedeschi, comprendeva anche una vasta area per la somministrazione al pubblico, con ampio giardino e un grande salone detto “Kegelbahn” decorato con uno stile che richiamava l’idea di “birreria bavarese”, teatro per diversi anni della versione torinese dell’Oktoberfest. Il complesso venne quasi del tutto demolito negli anni Venti e ricostruito in via Principessa Clotilde 1, dove l’azienda rimase in attività sino alla chiusura definita avvenuta nel 1969.
Originaria dell’Engadina era anche la famiglia Boringhieri che nel 1876 con Andrea, unitosi in matrimonio con Anna Bosio, esponente dell’altra dinastia di birrai, inaugurò una fabbrica di birra, la Boringhieri & C, in un’area periferica di Torino al fondo di corso Vittorio Emanuele II, dove ora si trova piazza Adriano, in borgata Cenisia (sotto e anche nella foto in alto). Sull’elegante edificio in mattoni rossi, provvisto di birreria e giardino all’aperto, s’innestava una torre merlata con un orologio, che dettava l’ora al quartiere, un tempo noto con il nome di “Boringhieri”, ora non più in uso. L’azienda inaugurò verso la fine degli anni Venti un reparto “malteria”, dove avveniva la maltatura dell’orzo, che consentì, in linea con i principi autarchici dell’epoca, di produrre una birra “prettamente italiana”.
Lo stabilimento, al centro di vivaci polemiche alimentate da chi, ignorandone il valore architettonico, ne invocava la demolizione per “liberare” l’asse di corso Vittorio, venne purtroppo abbattuto nel 1961 dopo la cessazione dell’attività produttiva. Proprio nei locali di Boringhieri nacque la moda delle chellerine, dal tedesco kellnerin, cameriera, nome che entrò nell’uso comune per designare le avvenenti ragazze delle birrerie torinesi, appositamente scelte tra le più bionde e prosperose per rispecchiare il cliché della cameriera bavarese. Il consumo di birra s’impose a tal punto che nel 1865 si contavano 114 birrerie: tra le più sontuose la birreria (e birrificio) Kursaal Durio, all’angolo tra via Cigna e strada del Fortino, costruita nel primo Novecento in uno stile in voga al tempo per i locali dell’intrattenimento, che univa l’impronta nordicizzante “Chalet svizzero” con i toni borghesi dell’Art Nouveau. Dell’edificio, comprensivo di bocciodromo e “scivolodromo” per pattinare sul ghiaccio, sopravvive l’alta torre.
Il terzo birrificio venne aperto dall’alsaziano Karl Metzger, che nel 1862, dopo un esordio in borgo Dora, spostò la lavorazione in via San Donato, dove fece costruire uno stabilimento oggi classificato come “monumento industriale” per le qualità estetiche, che uniscono l’eclettismo ottocentesco con elementi di stile floreale dovuti all’apporto successivo di Pietro Fenoglio. La birra prodotta da Metzger, inventore dello slogan entrato nel linguaggio comune “Chi beve birra campa cent’anni”, viene descritta al pubblico, ancora poco avvezzo al consumo brassicolo, come “liquido amaro dissetantissimo e nutrichevole dal sapore speciale”, e raggiunse il successo grazie al figlio, Francesco Giuseppe, che aveva migliorato le proprie conoscenze come tirocinante in Germania. Nei primi anni del Novecento il brand “Birra Metzger Torino” acquista notorietà internazionale affiancando alla birra bionda “uso pilsen” una birra bruna e lanciando campagne pubblicitarie di richiamo firmate dal futurista Nicolay Diulgheroff, a cui si deve il logo con la M maiuscola, che veicola modernità e dinamismo, concetti cari all’estetica del futurismo.
La produzione di Metzger, rilevata nel 1970 dalla triestina Dreher, cessò nel 1975, ma fra i tre birrifici che hanno fatto la storia dell’arte brassicola torinese è l’unica a essere rinata: nel 2015 un imprenditore del settore ha infatti rimesso in commercio le prime bottiglie recanti il prestigioso marchio, prodotte secondo la ricetta originale, riportando sulle tavole dei piemontesi un pezzo di tradizione birraria.