Carpignano Sesia e la chiesa di S. Pietro, esempio eccellente di architettura romanica nel Novarese
Il respiro di Cluny e di antichi Martiri giunge sino a noi
CARPIGNANO SESIA. ll paese di di 2.500 anime di Carpignano si trova sulla riva sinistra del fiume Sesia; nel territorio comunale scorrono numerosi corsi d’acqua artificiali, tra i quali la roggia Biraga. la roggia Busca e la roggia Mora (si può cogliere una vena poetica in questi nomi, attribuiti chissà quando alle acque che dissetavano il paese e permettevano le coltivazioni).
Parlare di questo luogo equivale a raccontare una favola antica; per comprendere la sua storia, una grande e importante storia, dobbiamo risalire alla casata dei Conti di Pombia, poi Conti di Biandrate, nobiltà emergente dalle nebbie della memoria medioevale con i fratelli Uberto I, Riccardo I e Gualberto (l’ultimo sarà Vescovo di Novara dal 1032 al 1039).
I figli di Uberto I (Adalberto, Uberto II, Guido I e Riprando, Vescovo di Novara dal 1039 al 1053) fondano l’Abbazia di San Nazzaro (oggi San Nazzaro Sesia, che racconterò in un altro viaggio) intorno al 1050.
Circa trent’anni dopo, Guido II (figlio di Guido I) fonda il Priorato Cluniacense di San Pietro di Castelletto Cervo (https://www.monasterodicastelletto.it/), “qui est constructo in loco ubi dicitur Clugnedo”, costruito nel luogo detto Cluny.
I Conti Alberto e Guido di Biandrate (“uomini di splendida nobiltà e condottieri di eserciti” secondo il cronista Alberto di Aquisgrana, nella sua Historia Hierosolymitanae expeditionis) prendono parte alla prima Crociata. Un figlio di Alberto di Biandrate è Guido, detto il Grande, “uno fra i grandi ed egregi principi di Lombardia” secondo Guglielmo di Tyr, prelato e storico (1130 – 1186). I Conti di Biandrate mantengono l’indipendenza del loro feudo fino al 1167, quando non sono più in grado di opporsi all’espansione della vicina città di Novara.
Abbandoniamo per un attimo la vicenda storica e torniamo a Carpignano. Il paese conserva al suo interno il nucleo antico di fortificazioni e di case che formavano il castello – ricetto medioevale. Costruito nel secolo XI dai Conti di Pombia, è posto in una posizione strategica lungo la strada che da Biandrate risaliva verso la Valsesia, il castello-ricetto conosce il suo periodo di massimo splendore nel XII secolo con Guido III il Grande, Conte di Biandrate.
Nonostante il degrado subito nel tempo, il castello – ricetto, con le sue mura e le sue case costruite con mattoni e ciottoli di fiume disposti a spina di pesce, mantiene ancora oggi la suggestione di un antico borgo medievale.
Accanto alla porta d’ingresso, dov’era il ponte levatoio sul fossato che scorreva tutt’intorno a scopo difensivo, si è conservato il rivellino del XV secolo; poco più avanti si incontrano i resti di una casa torre; purtroppo, a causa delle distruzioni e dei rifacimenti subiti nel corso dei secoli, solo alcune abitazioni hanno mantenuto le finestre con le originali decorazioni in cotto.
In un’altra costruzione, poco distante dalla porta di ingresso, vi è un imponente torchio in legno costruito nel 1575: è il più antico in Piemonte, a lungo utilizzato per la spremitura delle uve, delle noci e del ravizzone. Siamo in piazzetta della Credenza, in un ambiente quattrocentesco, costruito con ciottoli di fiume innestati a spina di pesce.
All’inizio abbiamo accennato ad un Priorato Cluniacense (già descritto da queste colonne il 28 aprile 2024 (https://www.piemontetopnews.it/castelletto-cervo-il-priorato-cluniacense-e-gli-affreschi-legati-al-miracolo-sul-cammino-di-santiago/) e di Cluny. Quali ne sono state le sue origini e qual era la loro funzione, in questo territorio?
La fortuna del monastero e del modello cluniacense derivano dalla loro libertà. Per espressa volontà di Guglielmo d’Aquitania (detto il Pio, 886 – 918), fondatore di Cluny (in Borgogna) nel 910, l’Abate e i suoi monaci sono liberi da qualunque soggezione a poteri laici o ecclesiastici; garanti, tutori e difensori di questa libertà sono i Santi Pietro e Paolo e il Papa. In questo modo Cluny diventa la “seconda Roma” nell’Europa del tempo, e il privilegio dell’esenzione si estende a tutti i monasteri che da essa dipendono; nasce una rete di Abazie e Priorati che fanno riferimento alla Borgogna, un vero e proprio ordine religioso che si diffonde velocemente per le sue speciali caratteristiche: tra il 1076 e il 1095 sorgono circa cinquanta monasteri cluniacensi, soltanto in Lombardia e nel Piemonte orientale.
La chiesa di San Pietro in Carpignano è quel che resta di uno di essi. Situata all’interno del ricetto, viene ceduta dai Conti di Biandrate ai monaci benedettini cluniacensi. Nel 1140 Papa Innocenzo II stabilisce che venga aggregata al Priorato di Castelletto Cervo (una successiva Bolla di Papa Lucio III, emanata nel 1184 e indirizzata al Priore Guglielmo, elenca le località a lui soggette, e fra esse figura San Pietro di Carpignano).
Nel Trecento e nel Quattrocento a Carpignano viene introdotta la figura degli Abati Commendatari, dei quali poco sappiamo (rimangono alcuni stemmi affrescati sulle pareti esterne di edifici connessi, oggi deteriorati e illeggibili), eccetto il fatto che Castelletto e Carpignano erano parte di una unica Commenda, soppressa nel 1771 da Papa Clemente XIV su richiesta del Re di Sardegna (da quel momento, i beni posseduti e amministrati entrano a far parte della Diocesi di Biella). Segue un progressivo abbandono e spogliazione, la chiesa verrà sconsacrata e ceduta a privati, fino alla riscoperta avvenuta nel corso del Novecento, anzitutto grazie agli studi di Paolo Verzone (Vercelli 1902 – Torino 1986).
Per le vie silenziose del borgo incontro la signora Teresa, che aspetta i suoi nipotini, al ritorno da scuola, per consumare insieme il pranzo che ha preparato per loro, e la giovane Giulia; grazie alla loro solerte iniziativa si trova la chiave della chiesa, e vengo accompagnato a visitarla, in via eccezionale, in quanto si apre soltanto in occasione della festa della Santa Croce, il 12 settembre.
Dell’antica costruzione, in stile romanico, osservo le mura dell’abside (molto rimaneggiate) e delle absidiole laterali, sobriamente decorate con lesene ed archetti pensili in cotto. L’interno della chiesa (oggi di proprietà comunale) si presenta a tre navate, con arcate e robusti pilastri di sostegno e custodisce un ciclo di importanti affreschi romanici del XII secolo, riportati alla luce in tempi recenti. Il catino dell’abside è interamente occupato dalla figura del Cristo Pantocratore, affiancato dalla Madonna e da San Giovanni Battista (è la cosiddetta Deesis, tema iconografico cristiano di matrice bizantina). Nel registro inferiore sono raffigurati gli Apostoli (la pittura è stata mutilata dall’apertura di due finestrelle nel muro dell’abside). Altri affreschi gotici recuperati risalgono al XV secolo; una Annunciazione dipinta al di sopra di un arco della navata centrale, e figure di santi sui pilastri.
La Associazione Amici del San Pietro di Carpignano Sesia ha predisposto una istruttiva guida per i turisti, disponibile all’interno della chiesa. Grazie ad essa, posso ripercorrere la genesi e il significato di un’opera d’arte a se stante, il combattimento tra un uomo e una fiera. Si tratterebbe di un raro riferimento al Libro di Giobbe, simile ad una miniatura presente in un Codice di Citeaux, voluta dall’Abate Stefano Harding; a contatto visivo con l’affresco ne avverto tutta la potenza: l’eterna lotta fra il Bene e il Male, oppure la lotta per preservarsi dalle tentazioni, che il monaco medievale doveva per forza vincere!
Una curiosità riguarda il Santo Patrono locale: la festa patronale ricorre il 12 settembre (la Santa Croce), mentre il Patrono è Sant’Olivo. La reliquia del suo corpo giunge qui nel 1614, procurata dal gesuita padre Domizio Piatti, appartenente alla famiglia feudataria del luogo (residenti a Turbigo, nel palazzo cinquecentesco chiamato “Corte Nobile”. Un suo nipote, l’abate Cesare Piatti, donerà una serie di sculture di famiglia alla Biblioteca Ambrosiana). Egli aveva ottenuto i resti di Olivo e altre reliquie, tra cui i teschi di Pelbonia e Fortuno (Fortunato), a Roma, recuperati dalla catacomba di Santa Priscilla sulla Via Salaria. Il corpo del santo viene collocato all’interno della chiesa parrocchiale, in una nicchia appositamente realizzata sopra l’altare di San Carlo. Passano quarant’anni e il 5 novembre 1645 il borgo è saccheggiato dalle truppe francesi; in quell’occasione si verifica un fatto che, agli occhi della popolazione, ha del miracoloso ed accresce la devozione verso Sant’Olivo. L’accaduto è testimoniato dal racconto di don Giovanni Francesco Soglio.
«I francesi il 5 novembre 1645 hanno saccheggiato la casa parrocchiale con ogni sorta di maltrattamenti alla popolazione ed incredibile danneggiamento e disprezzo delle cose sacre, ed anche nessun riguardo per le Sante Reliquie di Sant’Olivo e di altri santi, che se non fossero state miracolosamente difese avrebbero asportato e distrutto. Per dir tutto in breve, cosa degna di essere ricordata, quando già avevano alzato le scuri per spezzare le urne in cui le reliquie si conservavano, apertesi queste da sé, furono accecati in modo tale, come attestarono gli stessi ufficiali, da non potersi ritirare che rispettandole. Io Giò F. Soglio altro curato ho scritto questo a gloria di Dio e per memoria del fatto».
Questo fatto è simile a quanto accaduto al Monte dei Cappuccini di Torino, nella chiesa di Santa Maria al Monte, ad opera di truppe francesi durante l’Assedio del 1706, e questa è un’altra storia che merita di essere raccontata!
Tante suggestioni si affollano nei miei pensieri, dalla penombra della chiesa al ritorno alla luce del mezzogiorno che mi assale all’uscita. Carpignano Sesia consente di immergersi, per il breve spazio di un’ora, nello spirito del Medioevo, lontano dal rumore e dalla vita.