Da Losa di Gravere a Montebenedetto: sulle orme dei Certosini in Valle di Susa
E’ l’anno 1084 quando San Bruno di Colonia, conosciuto anche come Brunone o “Bruno Gallicus”, nato in terra germanica e insegnante di lettere a Colonia, ma per anni canonico nella cattedrale di Reims in Francia, fonda nel cuore del massiccio della Chartreuse (tra Grenoble e Chambéry), con l’appoggio del vescovo Ugo di Grenoble, la Grande Chartreuse. Coniugando anacoretismo (il ritiro in solitudine) e cenobio (la vita in comune), San Bruno, insieme con sei compagni, diede vita a un centro monastico, soprannominato il “Deserto di Chartreuse” per la collocazione in un luogo remoto e impervio tra i boschi, che sarebbe divenuto in pochi anni la “Casa madre” dell’Ordine certosino (il nome deriva da “Carthusia”, versione latina del toponimo Chartreuse), sorto da quella tensione al rinnovamento del monachesimo benedettino che si manifestò con tutta la sua forza dirompente tra XI e XII secolo.
Pur in assenza di una Regola scritta da San Bruno, lacuna che sarà colmata più tardi con la stesura delle “Consuetudini” (definite “Statuti” dal XIII secolo) per mano di Guigo I, quinto successore di Bruno alla guida dell’Ordine, già negli anni seguenti i “monaci bianchi” si mossero verso l’Oltralpe lungo la direttrice della valle di Susa, costruendo chiese e gettando le basi di nuove comunità grazie alla generosità di signori laici disposti a donare terreni e concedere diritti. I “fratres carthusienses”, nella loro continua ricerca di luoghi remoti, il cosiddetto “deserto”, in cui condurre un’esistenza solitaria, al riparo dai clamori del mondo, avvolta nel silenzio e nella quiete contemplativa, s’insediarono quindi sulle montagne valsusine, stabilendosi dapprima in località Losa sopra Gravere e poi a Montebenedetto e Banda in territorio di Villarfocchiardo. Abbandonate nei secoli successivi le antiche sedi di montagna, l’esperienza di questi monaci dediti all’adorazione di Dio e alla preghiera incessante era destinata purtroppo a concludersi a metà Ottocento, con la soppressione, imposta dal Governo dell’epoca, della seicentesca Certosa Reale di Collegno, edificata per volere di Cristina di Francia, vedova del duca Vittorio Amedeo I di Savoia, che, in adempimento d’un voto, aveva immaginato e realizzato per i certosini una dimora grandiosa alle porte della capitale.
Prendiamo le mosse dalla Madonna della Losa, prima tappa dell’itinerario percorso nei secoli dai monaci “colonizzatori” lungo la valle della Dora Riparia. Risale al 1189 la prima menzione della presenza sulle alturedi Gravere, in località “de la Losa”, d’una comunità monastica, designata dal conte Tommaso I di Moriana-Savoia come beneficiaria di diritti sulla montagna di “Orgevallis” (toponimo che si ritiene riferito al massiccio dell’Orsiera). Come si è desunto dal Cartario della Certosa di Losa, la prima identificazione dei monaci di Gravere come “fratres” appartenenti all’Ordine certosino avviene però in un documento del 1191. La presenza certosina alla Madonna della Losa si rivelò di breve durata perché, forse a causa di attriti con gli abitanti del vicino villaggio, risulta che già nei primi anni del XIII secolo i monaci si fossero trasferiti nella nuova sede di Montebenedetto, immersa nei boschi sopra Villarfocchiardo a circa 1160 metri di quota. Riparata nel seno di una conca montana, nascosta agli occhi del mondo, la Certosa di Montebenedetto, nuova dimora dei Padri certosini della Losa, era situata in uno scenario naturale che richiamava la solitudine, l’isolamento e la lontananza dal “resto del mondo” caratteristici del sito originario della Grande Chartreuse.
In base agli studi di mons. Savi, che si basò su informazioni tratte dalla “Cronica della Losa”, rinvenuta negli archivi del comune di Gravere, l’edificio ecclesiastico intitolata alla Madonna della Losa esisteva già ben prima dell’avvento dei Certosini, facendosi risalire come fondazione addirittura all’anno 844, ad opera dei benedettini della Novalesa. Tale affermazione troverebbe riscontro sia nell’impronta protoromanica del campanile, sia nell’impianto generale della chiesa, sospesa su uno sperone roccioso a strapiombo sulla valle, somigliante in modo sorprendente, anche nella forma dell’abside, a quello delle cappelle più antiche dell’abbazia di Novalesa, databili alla fine del IX secolo.
L’interno della cappella della Madonna della Losa custodisce un prezioso ciclo di affreschi, che orna le due metà della volta, dalla peculiare forma a “carena”, e sono riconducibili a due fasi esecutive: i più antichi, raffiguranti la serie degli apostoli, vennero realizzati nella seconda metà del Trecento (o primo Quattrocento), mentre risale al XVII secolo l’intervento di altre mani che ridipinsero alcune figure, forse rovinate dal tempo, e ne aggiunsero due nuove, un santo benedettino e un santo vescovo (o abate).
Seguendo le orme dei monaci, spostiamoci adesso da borgata Losa di Gravere a Montebenedetto, l’area in territorio di Villarfocchiardo in cui i “fratres” certosini, con il permesso del conte Tommaso I, si trasferirono al principio del XIII secolo per costruirvi la loro certosa. Il complesso, sebbene mutilato in alcune parti dalla disastrosa piena del rio delle Fontane che si abbatté in zona nel 1473 devastando in particolare il “Chiostro grande” con le celle dei monaci, appare ben conservato nella sua linearità architettonica, conforme alle prescrizioni certosine. Il sito di Montebenedetto, oggi di proprietà della Regione Piemonte e inserito nell’area protetta del Parco delle Alpi Cozie, è considerato dagli studiosi un eccezionale esempio (forse l’unico) a livello europeo di “Certosa primitiva”, che conserva cioè intatta, non avendo subito rimaneggiamenti nel corso dei secoli aldilà dei guasti dovuti agli eventi alluvionali, la planimetria e l’aspetto di un insediamento certosino come doveva apparire tra la fine del XII secolo e il principio del XIII.
In base alle Consuetudini e agli Statuti dell’Ordine, la struttura architettonica delle “certose”, concepite come luoghi di nascondimento, meditazione e penitenza, doveva riflettere i pilastri portanti della Regola certosina, come la ricerca della solitudine interiore, la separazione dal mondo, l’ideale eremitico. Da queste premesse derivano l’essenzialità di linee e la sobrietà nei decori che si osservano come tratti caratteristici delle prime fondazioni certosine, ispirate, anche nella collocazione naturale e nella disposizione degli spazi, al prototipo rappresentato dalla Grande Chartreuse di Grenoble. Tratto qualificante gli insediamenti certosini, rimasto in vigore per tutto il periodo medievale, era la suddivisione del centro monastico in due nuclei distinti: la casa “alta”, chiamata “eremus” o “domus superior”, che, considerando la prevalente localizzazione delle certose in territori montani, faceva derivare la propria denominazione dall’essere situata più a monte, e la “domus inferior” o casa bassa, chiamata poi “Correria”, riservata ai monaci conversi (che prendono i voti, ma si dedicano al lavoro anche al di fuori della propria cella e della certosa) e costruita a una quota più bassa.
Il perimetro esterno della certosa, tracciato dai monaci fondatori, era delimitato da un muraglione di cinta, pensato come protezione dagli animali selvatici e dall’intrusione di malintenzionati: in genere, per consentire il passaggio, si apriva nel muro un solo varco d’ingresso, sorvegliato da un guardiano. La chiesa costituiva l’elemento cardine dell’intero sistema monastico: povera di decorazioni, si presentava, almeno fino al Trecento, come un edificio ad aula rettangolare, privo di transetto, con l’area presbiteriale più stretta e rialzata rispetto all’unica navata e l’abside piatta. Poco illuminata, di solito per mezzo di finestre con forte strombatura verso l’interno, era coperta da un volta a botte. Parti costitutive essenziali di una certosa erano poi il “chiostro piccolo”, in genere addossato a una delle pareti laterali della chiesa, riservato alla preghiera e alla meditazione dei monaci, su cui affacciavano gli spazi comuni, come il refettorio e la sala capitolare, e il “chiostro grande”, una galleria coperta, realizzata in legno e destinata a fungere da collegamento tra le celle dei monaci, ciascuna concepita come un’abitazione separata dalle altre.
La chiesa di Montebenedetto, grazie al suo perfetto stato di conservazione, è una testimonianza fedele dell’architettura certosina delle origini. Dei due chiostri, invece, rimangono scarse tracce: quello grande, con le celle dei monaci, venne gravemente danneggiato dalla piena del 1473 mentre gli unici elementi superstiti del chiostro piccolo sono il muro orientale e la relativa finestra. In uno degli edifici addossati alla chiesa e costruiti in epoca successiva per accogliervi le attività agricole e pastorali si può osservare un’elegante bifora di stile gotico, appartenente alla cosiddetta “casa del Priore”. Costui era, ed è tutt’ora, la guida della comunità monastica che, secondo le consuetudini dell’Ordine, rimaste quasi invariate dalla loro prima stesura ad oggi, viene eletto a scrutinio segreto ricorrendo a una procedura ancestrale, detta del “fagiolo segreto”, applicata anche ai giorni nostri. I monaci, adunati nella Sala del Capitolo, esprimono il proprio voto per i candidati alla guida della certosa, inserendo all’interno di un’urna un fagiolo bianco in caso di giudizio positivo e un fagiolo nero in caso di dissenso. La suprema autorità di governo dell’universo certosino, il Capitolo Generale, si riunisce invece ogni due anni presso la Grande Chartreuse, dove risiede il Priore Generale, chiamato “Reverendo Padre”, che, assistito da un Consiglio, governa l’Ordine fra un Capitolo e l’altro.
Interessante è anche lo stemma dell’Ordine Certosino, che non troviamo però raffigurato a Montebenedetto. Composto da un globo sormontato da una croce, appare sovrastato da una sequenza di sette stelle, aggiunte nel Seicento come richiamo ai sette monaci fondatori (San Bruno e i sei compagni). Il motto dell’Ordine “Stat Crux, dum volvitur orbis” (la Croce resta fissa, salda, mentre il mondo gira), coniato tra XVI e XVII secolo, sembra alludere al concetto di stabilità, immutabilità e eternità del divino, verso cui è interamente proiettata la vita del monaco certosino, contrapposte alla transitorietà e volubilità delle cose terrene.
Alla certosa faceva poi capo una rete più o meno estesa di “grange”, fabbricati ad uso residenziale e agricolo costruiti per la gestione del patrimonio fondiario del monastero, proveniente da donazioni o da acquisti di terreni situati anche a notevole distanza dai confini dell’eremo. Venivano condotte dai fratelli conversi e dai “donati” (monaci che non prendono i voti, ma “donano” la propria esistenza all’Ordine). Tra le grange di Montebenedetto la più importante era quella di Banda, collocata a una quota più bassa lungo il sentiero che conduce all’abitato di Villarfocchiardo. Con il trasferimento dei monaci da Montebenedetto, autorizzato dal Capitolo Generale nel 1498, l’antica grangia di Banda, già in precedenza strutturata come una piccola certosa per consentire il soggiorno e le pratiche cultuali dei conversi, divenne la nuova sede della comunità. Anche la chiesa di Banda, nella sua semplicità, rispecchia i canoni architettonici delle certose medievali, ma risulta impreziosita, a differenza di Montebenedetto, da elementi ornamentali scultorei e pittorici (gli arredi sono stati in parte trasportati altrove).
La parabola dei monaci certosini della valle di Susa non si concluse però a Banda perché, dopo un primo trasloco ad Avigliana a fine Cinquecento e un provvisorio ritorno a Banda nel 1630, dopo il 1640 i Padri trovarono sistemazione nella Certosa Reale di Collegno, realizzata per volontà della prima Madama Reale. La permanenza dei Certosini a Collegno, fatta salva la parentesi dovuta alla legislazione napoleonica che aveva soppresso nel 1801 le corporazioni religiose, si protrasse sino al 1850/1855 quando la convivenza forzata con gli internati del Regio Manicomio, unitamente ai provvedimenti anti-ecclesiastici del governo, impose ai Padri di lasciare il complesso barocco. Ai pochi rimasti venne offerta ospitalità dal conte Vittorio Amedeo Sallier de la Tour, tra i principali oppositori della politica liberale di Cavour, che li accolse nel castello della Saffarona, acquistato nel 1833.
La gestione della Certosa di Montebenedetto, ridotta dopo il 1498 al ruolo di grangia, venne affidata dai monaci a un padre Procuratore, che ne curò l’amministrazione sino alla confisca dei beni avvenuta sotto il regime napoleonico. Attualmente il complesso, restaurato e reso visitabile, mantiene la vocazione agricola, ospitando una famiglia di “marghé” rimasta fedele all’antica tradizione della transumanza e dedita alla produzione casearia.