Da Torino a Honolulu, il dramma di fine Ottocento di “Mantea” Sobrero
TORINO. Maria Carolina Isabella Luigia Sobrero. Si chiamava così una delle nobildonne piemontesi nate nell’Ottocento: Gina Sobrero, la divinatrice Mantea. Portava quattro nomi, perché era figlia di un barone, e la sua vita, iniziata nel 1863, e nota negli ambienti letterari, si può tranquillamente affermare, la travolse.
Catapultata dall’altra parte del mondo ancora ragazza, Gina sposò l’ufficiale hawaiiano Robert William Wilcox, che studiava all’Accademia militare di Torino, grazie al supporto finanziario del re dell’arcipelago, David Kalakaua. Da quell’ambiente chiuso che doveva essere la Torino ottocentesca Robert trascinò presto la giovane moglie a Honolulu, a causa di un colpo di stato nell’isola.
Alla pari di un film, quel viaggio per terra e per mare dall’Italia in un altro continente, attraversando numerosi paesi, probabilmente parve alla donna un sogno, che, sfortunatamente, si rivelò meno bello di quanto avesse potuto immaginare. Raccolse infatti quell’esperienza, e gli anni che seguirono, all’interno del libro Espatriata. Da Torino a Honolulu pubblicato solo nel 1908, a pochi anni dalla sua morte nel 1912.
La Sobrero affiderà a questo diario il racconto di quell’avventura in un luogo molto diverso dalla città in cui visse, con case in legno, famiglie allargate, riti tribali, un caldo insopportabile a volte, una cultura difficile per lei da comprendere e alla quale avvicinarsi, che si aggiungerà a un matrimonio triste. Persa, sottomessa, e ingannata dal marito, si sentirà defraudata da un romanticismo desiderato e da tutte le proprie speranze.
Un paio d’anni, circa, durò la separazione da Torino, nella quale ritornò da sola – dal momento che Wilcox continuò le attività politiche, sposandosi nuovamente con una principessa hawaiiana -, dopo aver conosciuto il lutto più duro tra tutti: quello per una figlia morta in tenera età, non resistendo al tragitto in nave compiuto con la madre per scappare dalle Hawaii.
Scrittrice e giornalista, questa donna di lettere si diede lo pseudonimo “Mantea” quando diventò autrice di galatei di successo e di rubriche su varie riviste e giornali, in quanto il tema legato al galateo era ben testato tra le letterate di fine Ottocento. Tra le pagine del più noto dei suoi, Le buone usanze, scrisse: «Il regno della donna è, durante tutta la sua vita, la sua casa: ora è bene che la fanciulla concentri molta affezione e magari un po’ di vanità nella cura della propria camera, che deve essere la miniatura della sua casa futura», avendo una visione misurata e colta della donna, frequentatrice di salotti, musei, teatri, moglie e madre paziente, distante dal femminismo.
Mantea fu una di quelle “signore” sole, che dovettero sudarsi da vivere. Lo fece, appunto, con la scrittura, attraverso cui spiazzava i lettori col suo modo di raccontare brillante e acuto, sempre attento e perspicace.
Si dice che prima di morire, avrebbe dettato alla sorella le ultime risposte per la posta dei suoi lettori. Le redazioni giornalistiche con cui collaborava, diedero poi la notizia della sua scomparsa, salutandola con titoli come Povera cara amica.