Dal Piemonte alla Pampa Gringa argentina, alla ricerca dei discendenti dei primi coloni
Il Diario di un emozionante viaggio da Torino a Buenos Aires e nella Provincia di Córdoba, il Piemonte d’Argentina, di oltre venti “ambasciatori” della cultura, della lingua e delle tradizioni piemontesi. Un progetto di due Associazioni Culturali torinesi (Piemonte Cultura e Monginevro Cultura) di concerto con la FAPA (Federación de Asociaciones Piemontesas de Argentina) e il sostegno morale del Consiglio Regionale del Piemonte. Su Piemonte Top News, giorno per giorno, tappa per tappa, i nostri Lettori potranno seguire la cronaca e il resoconto di questa avvincente e arricchente avventura
I PARTE – Torino, 31 Ottobre 2022, Lunedì | Buenos Aires, 1° Novembre 2022
Per chi, come me ‒ per un’atavica repulsione del volo ‒ non è avvezzo a spostarsi in aereo, l’idea di affrontare una traversata transoceanica di 12.000 chilometri, a 38.000 piedi di altezza, e a 500 nodi di velocità, rappresenta un impedimento mentale quasi insormontabile. Ma il desiderio di incontrare i fratelli piemontesi d’Argentina è talmente intenso e stimolante da prevalere su qualsiasi pregiudizio e paura. Così mi sono imbarcato a Caselle su un aereo della Iberia sia pur con una malcelata indifferenza esteriore, ma con una grande gioia nel cuore, perché stava per realizzarsi uno dei sogni più ricorrenti e inseguiti nel corso della mia vita: un viaggio nella Pampa Gringa, il Piemonte d’Argentina.
Dopo lo scalo a Madrid, avvenuto attorno a mezzanotte del 31 Ottobre 2022, e il trasbordo su un più capiente jet, sento che la meta, per quanto ancora lontana, è ormai a portata di mano. Dopo il rullaggio e la ruggente spinta dei motori per l’imminente decollo, l’aereo raggiunge presto l’altezza e la velocità di crociera, mentre di sotto, immenso e avvolto nell’oscurità, si estende come un deserto nero l’Oceano Atlantico. Le luci a bordo sono spente, e i passeggeri, cullati dal rombo dei motori (o con l’aiuto di blandi sonniferi), si abbandonano al riposo, avvolti in una coperta rossa di pile. Le tredici ore di volo, in fondo, passano in fretta, tra l’incoscienza del sonno e l’ansia di arrivare. Nulla in confronto ai lunghi e faticosi viaggi via mare dei nostri emigranti che tra i primi anni Ottanta dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento, stipati come acciughe in cabine di terza classe, o accovacciati sui ponti dei piroscafi, si avventuravano in cerca di fortuna verso le rive argentine dell’Atlantico, per poi dirigersi su traballanti carri trainati da cavalli, o a bordo di vacillanti battelli fluviali, o ancora su sgangherate carrozze ferroviarie, verso le regioni più interne e disabitate della sconfinata Pampa argentina.
Alle nove di mattina del 1° Novembre, il jet si sta preparando all’atterraggio all’Aeroporto Internazionale di Buenos Aires, a Ezeiza, intitolato ad Adolfo Suarez Barajas.
Le operazioni di sbarco sono alquanto impegnative: dopo lo scalo, i passeggeri vengono sottoposti, con fredda gentilezza, ad un approfondito interrogatorio sul perché e sul per come si è decisi di arrivare in Argentina. Gli addetti alla sicurezza scannerizzano i passaporti dopo aver fotografato i passeggeri uno per uno e rilevate le impronte digitali per l’identificazione e l’archivio dei dati. Poi è il momento di passare il metal detector: poliziotte e poliziotti molto scrupolosi impongono ai nuovi arrivati di sfilare le cinture, deporre gli oggetti metallici, cellulari e bagagli a mano e spesso – forse scegliendo a caso tra i passeggeri in transito – ordinano di svuotare qualche valigia, di aprire zainetti e persino il portafoglio, per ispezionarne il contenuto; a qualcuno viene chiesto di togliersi le scarpe; ad altri impongono di aprire le braccia orizzontalmente, frugando con cura in ogni parte del corpo, palpeggiando busto e arti, alla ricerca di eventuali oggetti non compatibili con la sicurezza.
Poi, finalmente, si accede all’area Free Tax, dove decine di negozi espongono nei loro scaffali e sui banchi miriadi di prodotti di marchi globalizzati, perfettamente uguali a quelli che potresti trovare in qualsiasi altra parte del mondo. Metto a tacere ogni subdola tentazione di acquisto compulsivo, senza neppure chiedermi se qui i prezzi, in dollari americani o in euro, siano davvero convenienti.
Fuori, ad attenderci, c’è Mimì, o meglio Domenica Ruffa, di chiare origini calabresi: i tratti del viso e il colore scuro degli occhi, vivaci ed espressivi, tradiscono l’origine mediterranea della nostra guida. Il suo italiano è perfetto, anche se caratterizzato dall’inconfondibile accento argentino. Con il Gruppo dei Danseur dël Pilon, con cui ho condiviso il viaggio da Torino (composto da una decina di coppie di ballerini, che si esibiranno in costume in gaie danze tradizionali piemontesi nei teatri di una decina di città della provincia di Còrdoba) a cui sono aggregato come “magìster” di lingua piemontese, saliamo a bordo di un piccolo bus (che qui chiamano ‘collettivo’, o anche “omnibus”), per raggiungere l’Hotel Mérit, nel cuore del quartiere San Telmo, non lontano dalla centralissima Plaza 25 de Mayo. A Buenos Aires ci si fermerà quattro notti e quattro giorni, quel tanto che basta per ambientarsi al cambio del fuso orario: spostiamo indietro le lancette di quattro ore (che sarebbero cinque, se in Italia fosse ancora in vigore l’ora legale). Quattro giorni sono davvero pochi per conoscere in modo approfondito le peculiarità di questa affascinante città dalle mille facce e dalle mille contraddizioni. Ma tant’è. Dobbiamo accontentarci di una visita rapida della capitale, perché la nostra missione non è di tipo turistico, ma è volta ad incontrare le comunità piemontesi della Provincia di Córdoba, dove ancora cinquecentomila persone parlano o almeno capiscono la Lingua piemontese dei lori padri, dei loro nonni, dei loro bisnonni.
Dopo la sistemazione nelle camere d’albergo, Mimì ci conduce a piedi verso il cuore della capitale federale, attraverso strade affollate e dal traffico convulso.
Abbiamo lasciato l’autunno inoltrato in Piemonte. Ma qui la primavera sta esplodendo con tutto il suo vigore. Ci sorprendono i lunghi viali alberati di platani, dalle verdi foglie ancora tenere; qua e là gli alberi di jacarandà mostrano le loro sorprendenti chiome di fiori blu cobalto; qualche seivo, l’albero di corallo, ostenta i suoi delicati fiori rosso rubino; e non mancano i lapacho, dai delicati fiori rosa, e i palo borracho, dal tronco panciuto che ricorda le sculture cicciute di Botero. Tutto fa di Buenos Aires una città-giardino, fiorita di fiori multicolori.
Il primo problema, si fa per dire, è quello di cambiare le valute. I pesos argentini non sono certo una moneta pregiata, anzi. E non si trovano facilmente in Italia. Con la svalutazione galoppante che ha raggiunto il 100%, di giorno in giorno il peso argentino perde costantemente di valore, e non si sa mai quanto un prodotto, una merce, un caffè, uno spazzolino da denti possa costare il giorno successivo. Per cui, mi si dice, se si ha una necessità di qualche oggetto è molto meglio acquistarlo oggi e non rinviare al domani gli acquisti. Io non sono venuto in Argentina per fare shopping, ma disporre di qualche pesos per le spese spicciole o per le piccole occorrenze della vita quotidiana, è una esigenza irrinunciabile. Raggiungiamo allora Via Florida e Via Sarmiento, due arterie che conducono alla piazza della Casa Rosada. “È bene diffidare dai cambisti occasionali che rincorrono i turisti lungo i marciapiedi, offrendo pesos in cambio di dollari o euro – ci ammonisce Mimì. In queste due strade sono presenti numerosi cambisti ufficiali, ed è possibile trasformare in pesos i vostri euro: qui potrete fare le vostre operazioni di cambio in assoluta sicurezza, ad un valore ragionevole”.
Continua nei successivi articoli su questa testata a cadenza quotidiana.
Sergio Donna