Dronero, alla riscoperta del monastero cistercense femminile più antico del Piemonte
DRONERO. Nei pressi di Dronero, sul lato destro del fiume Maira, in vista dei primi rilievi montuosi, sorge la borgata Monastero, che reca nel nome l’evidenza d’una importante fondazione monastica, soppressa nel Cinquecento, le cui vestigia architettoniche vennero incorporate nella odierna parrocchiale di Sant’Antonio.
Grazie alla campagna di restauri finanziata dall’eredità di don Alessandro Marino, ultimo vicario con funzioni di parroco, morto nel 1999, cui si aggiunsero donazioni di benefattori, sono stati di recente riportati all’originaria bellezza e resi fruibili ai visitatori gli ambienti sopravvissuti dell’antico monastero cistercense femminile, il più antico del Piemonte. In particolare l’opera di recupero ha riguardato il raffinato chiostro quattrocentesco, cinto dal porticato con arcate ogivali e pilastri ottagonali in cotto, la casa vescovile, adoperata come residenza estiva o in occasione delle visite pastorali, le cellette delle monache e la vecchia stalla, risalente al periodo successivo alla soppressione monastica e oggi adibita a sala polivalente intitolata a don Marino.
La storia del monastero di Sant’Antonio Abate, che si fa cominciare in base alle valutazioni degli studiosi nel decennio compreso tra il 1125 e il 1135, s’inserisce in un contesto territoriale, il tratto iniziale della Valle Maira, caratterizzato dalla preesistenza di fondazioni monastiche benedettine legate al culto di San Costanzo, martirizzato secondo la tradizione nel 303 sul versante meridionale del monte San Bernardo, dove oggi sorge il santuario a lui dedicato, detto di San Costanzo al Monte, oggetto anch’esso di recenti restauri. Proprio dirimpetto al monastero di Sant’Antonio Abate, sul lato sinistro del fiume Maira, sorge infatti l’ex complesso abbaziale di Villar San Costanzo, fondato diversi secoli prima, forse nel 712, le cui vicende storiche s’intrecciarono nel tempo con quelle del monastero di Sant’Antonio.
La fondazione del monastero di Sant’Antonio, al tempo rientrante nella diocesi di Torino, fu quasi concomitante con la nascita di una delle comunità cistercensi maschili più fiorenti del Piemonte, l’abbazia di Staffarda, la cui origine si fissa al 1125. Dopo un’iniziale fase di vita autonoma la comunità dronerese, di cui ancora si discute se l’inquadramento nell’Ordine cistercense sia stato contestuale o successivo alla fondazione, venne posta alle dipendenze proprio dell’abate di Santa Maria di Staffarda, acquisendo prestigio spirituale, comprovato dal consistente patrimonio fondiario, frutto di donazioni in buona parte dovute ai marchesi di Saluzzo, con terreni nelle zone di Cuneo, Fossano, Villafalletto.
L’iniziativa che diede origine alla comunità di Sant’Antonio è attribuita ai potenti marchesi di Busca, ramo della vasta famiglia aleramica, derivato da Guglielmo, figlio di Bonifacio del Vasto. La fortuna dei marchesi di Busca, benefattori anche dell’abbazia di Staffarda, con cui intrattennero rapporti devozionali e patrimoniali, è legata alla figura dell’imperatore svevo Federico II. In particolare Manfredo II, nipote del capostipite Guglielmo, fu vicario generale dell’impero “da Pavia in su” tra 1238 e 1250, e la sorella Bianca Lancia diede all’imperatore germanico, con cui aveva intrecciato una relazione adulterina, due figli, poi legittimati (a seguito del matrimonio celebrato in articulo mortis): Costanza, che nel 1241 sposò l’imperatore di Nicea, e Manfredi, lo sventurato re di Sicilia caduto a Benevento nel 1266 combattendo contro Carlo d’Angiò.
La storia delle monache droneresi registra anche un episodio prodigioso, legato alla figura del patrono della comunità, Sant’Antonio Abate, tra i fondatori del monachesimo orientale, invocato dai contadini per la protezione del bestiame e dai malati di Herpes Zoster, infezione nota come “Fuoco di Sant’Antonio”, per la guarigione dal temuto morbo che nel Medioevo mieteva molte vittime. Nel 1354, nel corso d’una delle guerre che resero turbolento il Trecento piemontese, le monache di Dronero trovarono rifugio a Cuneo, portando con sé una cassa contenente reliquie e preziosi. Secondo le fonti tre mercenari inglesi, nel tentativo di impadronirsene, rimasero però “folgorati” dal fuoco di Sant’Antonio, vedendo non solo sfumare il progetto criminoso, ma perdendo anche la vita e finendo sepolti sotto un olmo.
Già nel XV secolo, destino comune ad altre comunità monastiche, si manifestarono i primi segni della decadenza che avrebbe condotto nel secolo successivo alla decisione di sopprimere il monastero: la diminuzione progressiva del numero delle monache, provenienti in prevalenza dai ranghi della nobiltà, e un certo allentamento della disciplina monastica, attestata dal richiamo del vescovo di Torino, Ludovico dei marchesi di Romagnano, che nel 1466 ammonì la comunità a un’osservanza più attenta dei doveri spirituali e liturgici.
Tra le figure eminenti del monastero di Sant’Antonio, ricordiamo l’ultima badessa, Isabella “de’ Burgo” della nobile famiglia dei Costanzia di Costigliole, cui apparteneva anche Giorgio, l’abate di Villar San Costanzo che fece realizzare la splendida cappella funeraria a lui destinata con le pareti affrescate da Pietro da Saluzzo. Isabella, che fu anche promotrice di lavori di ammodernamento, difese i diritti del monastero contro le pretese del comune di Dronero e del vescovo di Alba (nella cui diocesi si trovavano diversi possedimenti, chiese e priorati dipendenti dal monastero di Sant’Antonio), alimentando una lunga contesa che si concluse a sfavore della comunità. Nel 1511, l’anno stesso della morte di Isabella, la città di Saluzzo venne eretta in diocesi con bolla di papa Giulio II e, con lo stesso provvedimento, si dispose la soppressione del monastero.
Nonostante l’opposizione delle monache, che resistettero anche alla minaccia d’un decreto di scomunica, la storia della comunità ebbe termine nel 1592 con la chiusura definitiva del monastero e l’allontanamento delle religiose, accolte in parte a Fossano e in parte a Saluzzo. Il vescovo di Saluzzo tenne per sé il nuovo titolo di Parroco di Sant’Antonio, delegando le funzioni a un vicario. Da quel momento si diede purtroppo l’avvio a una radicale trasformazione del complesso, salvaguardando però della struttura originaria alcuni ambienti significativi fra cui il già menzionato chiostro, che conserva l’elegante porticato. Secondo le parole di Franco Caresio, l’armonia delle proporzioni, la ritmica scansione degli spazi, la leggerezza dei pilastri in cotto rivelano un garbo e un “tocco indecifrabile di femminilità” che distingue il chiostro di Sant’Antonio da quelli dei monasteri maschili, altrettanto affascinanti, ma più austeri.
Tra i meriti della campagna di restauri, che ha restituito alle visite il chiostro e quanto resta del complesso, annoveriamo anche la riscoperta di un affresco, raffigurante la Madonna del Latte, fatto risalire al tardo Quattrocento, quindi al tempo della badessa Isabella.
(Foto: Roberto Beltramo)