“Esse na ciola e tre quart”, “Avej ël quint pian da fité” e altre pittoresche espressioni piemontesi
La raccolta di modi di dire e frasi idiomatiche tipiche piemontesi proposta in numerosi articoli su questa testata non ha certo la presunzione di essere esaustiva. Ma tanto basta per dare un’idea della ricchezza espressiva della lingua subalpina e per mettere sul gusto i Lettori che ci seguono sempre con interesse e ci invitano a continuare ad esplorare questo tema.
In questo articolo riportiamo qualche altra arguta espressione della lingua piemontese che si adatta (con sagaci giri di parole) a quei soggetti che non sono – ahinoi – dotati di una copiosa dote di sapienza e saggezza.
Per i piemontesi, essere na ciola significa essere alquanto sempliciotto: un modo di dire che si addice a chi si comportarta cioè da faseul (da fagiolo, cioè da persona ingenua). Essere na ciola e tre quart significa superare il limite massimo tollerabile di bonomia e passare decisamente nella categoria degli sprovveduti, con l’aggravante di dimostrare di avere decisamente poco sale in zucca. Ovvero d’ “esse fòl ‘me na mica”, magari “ëd pan ëd biava”.
A proposito di zucche, c’è poi chi dimostra di essere una testa vuota, e di avere “’l quint pian da fité”. Curiosa questa espressione, nata sul finire del Seicento, quando Torino, capitale del ducato sabaudo, stava vivendo un effervescente periodo di grandi ampliamenti urbanistici, con l’intervento di architetti di fama internazionale. L’architetto di corte Amedeo di Castellamonte, cui si deve il tracciato della Contrada di Po, ora Via Po, inaugurata nel 1674, aveva disposto che i palazzi dell’aulica arteria diagonale che collegava Piazza Castello alla Porta di Po non potessero superare i 16 ‘trabucchi ‘ di altezza (pari a circa 18.50 metri) e non dovessero elevarsi per più di cinque piani. Le unità al piano cortile erano adibite ad attività artigiane; gli appartamenti al primo piano erano destinati alla nobilità (da cui l’espressione piano nobile) e alle famiglie aristocratiche; man mano che si saliva, si passava alle classi borghesi e alla servitù. Tutte le classi sociali erano infatti rappresentate nello stesso palazzo, con una curiosa e rispettosa convivenza di cittadini di ogni rango ed estrazione demografica e culturale. Gli appartamenti degli ultimi piani, considerati dai proprietari dei palazzi come unità immobiliari da reddito, erano decisamente più spartani e più scomodi da raggiungere: erano pertanto destinati alle famiglie meno abbienti e più popolari, e spesso rimanevano a lungo sfitti. Da qui la citata espressione “avèj ’l quint pian da fité”, avere il quinto piano (l’ultimo) sfitto.
E chiudiamo, visto che siamo in tema, con un altro modo di dire tipicamente piemontese: “Avèj na siensa da eut sòld al chilo”. In illo tempore, l’italica lira – quando ancora era una moneta “pesante” – si suddivideva in 20 soldi. Il valore di un soldo era dunque di 5 centesimi. Il senso è abbastanza ovvio. Tenuto conto di ciò, s’intuisce infatti che disporre di una scienza (intesa come sia come cultura, ma anche come intelletto) da otto soldi al chilo è come dire che le nostre conoscenze sono appena appena basiche, elementari, o forse insufficienti. Insomma: è come disporre di una cultura acquisita a buon mercato, e quindi “da bon pat”.