ESTELA ROBLEDO E DANIEL ESTEBAN PITTUELLI
CHIVASSO. Estela Robledo e Daniel Esteban Pittuelli, sono due coniugi prigionieri politici argentini, vittime della durissima repressione perpetrata dal regime del Generale Jorge Videla a partire dal 1976, con il cosiddetto “ golpe silenzioso ” che destituì Isabelita Peròn. Fanno fede ancor oggi le spaventose cifre del triste bilancio di quel periodo noto anche come “guerra sporca”: trentamila scomparsi (i cosiddetti desaparecidos ), quindicimila morti (di cui oltre duemila uccisi dal potere: su tutti ricordiamo i ventinove prigionieri trucidati nel carcere di Còrdoba, ove erano stati rinchiusi) che vennero per lo più seppelliti in fosse comuni (come quella del Cimitero San Vicente della stessa città di Còrdoba, ove oggi sorge il “ Memorial de los desaparecidos ”, edificato anche con il contributo del Comune di Torino), ventimila detenuti, la metà dei quali scontò la propria pena in veri e propri campi di concentramento.
Estela e Daniel hanno raccontato a Piemonte Top News senza timori il loro calvario di tre anni di detenzione (sposati dal 1973, vennero arrestati in una notte d’autunno australe, il 2 aprile 1976: lui aveva 23 anni, lei 20, incinta della secondogenita), la successiva libertà condizionata da un solerte trasferimento in terra straniera (in questo caso l’Italia) e il loro impegno nel far conoscere alla gente una triste realtà politica sulla quale i principali organi internazionale d’informazione glissarono a lungo, con silenzi e censure spesso imposti dall’altro, soprattutto a causa del sostegno dei generali golpisti da parte degli Stati Uniti.
Com’era la situazione signor Daniel?
«Assai, assai complessa, anche dal punto di vista dell’opinione pubblica argentina, divisa sul ruolo dei dittatori. Si parlava spesso dei “ due dèmoni”, metafora con cui si contrapponevano le parti in causa, militari e sovversivi. Inevitabilmente, molti anni ci sono voluti, dopo la caduta di Videla, per poter finalmente rivelare la realtà oggettiva delle cose. D’altronde, come insegna Primo Levi, non c’è alcunché di più efficace dei fatti e delle testimonianze dirette per poter arrivare ad esprimere un giudizio chiaro e schietto su un episodio della storia».
Vuole incominciare dall’inizio e tracciarci per sommi capi una panoramica di quelle che furono le cause di questa ribellione, di questa inquietudine così duramente soffocata dopo qualche anno ?
«Eravamo figli del nostro tempo: facevamo nostri alcuni eventi epocali, come l’uccisione di Ernesto “Che” Guevara, che era un nostro connazionale trasferitosi a Cuba, nell’ottobre del 1967; il Maggio francese di pochi mesi dopo; lo stesso Concilio Ecumenico Vaticano II, terminato nel 1965, molto sentito dai cattolici latino-americani con le tante novità che provocò nel mondo della Chiesa. Ecco, ci facevamo scudo di queste aperture mentali per sfidare le ingiustizie e invocare il cambiamento della società: anche da noi furono le fabbriche. Io lavoravo come operaio a Còrdoba presso la sede argentina di una grande casa automobilistica francese e ne ero il delegato sindacale. E poi c’erano e le università, a partire da Còrdoba, secondo ateneo in ordine d’importanza dopo quello di Buenos Aires, ad alimentare le linee del pensiero “peronista di Sinistra ” che però saltarono tutte a partire da quel 24 marzo 1976, quando Videla e i suoi uomini si impegnarono indefessamente per cancellare letteralmente un’intera generazione, rea di essersi ribellata in nome di una maggiore libertà».
A voi cosa successe esattamente?
«Fummo arrestati, interrogati sotto durissime torture che servivano per estorcerci determinanti informazioni, processati, difesi da avvocati d’ufficio, assolti quando tutti i nostri capi d’accusa erano caduti, ma fummo tenuti ugualmente in carcere perché comunque sovversivi rispetto alle direttive del regime. Ricordo che eravamo in quindici nella stessa cella, ognuno con il proprio materasso, e ci sostenevamo vicendevolmente, passando anche il tempo a parlare fra noi del più e del meno oppure a dar fondo alla nostra creatività: io, ad esempio, riciclavo gli ossi delle carni che ci portavano da mangiare per creare piccole opere d’arte».
Signora Estela, lei invece ci vuole invece raccontare lei stessa come voi donne vi organizzavate nei duri giorni della prigionia?
«Passavamo proficuamente il nostro tempo: studiavamo le lingue straniere – l’italiano, per la precisione -, la matematica, le meno istruite incominciavano a leggere e a scrivere; imparavamo giochi di ogni tipo, cantavamo, facevamo teatro il sabato e la domenica, leggevamo i giornali, il tutto clandestinamente. Soprattutto parlavamo molto fra noi, cosa che serviva moltissimo per capire meglio l’animo umano nelle proprie sfaccettature, specie in occasione di questa delicata e spiacevole esperienza che condividevamo».
Signor Daniel come siete arrivati in Italia?
«Io sono di origini in parte piemontesi e in parte friulane, arrivai in Italia nel 1979: mi misi in contatto dapprima con un ex-compagno di cella che si era stabilito a Roma, poi con una parente di Pozzuolo del Friuli, quindi con un sacerdote della Consolata a che mi presentò ai confratelli torinesi».
E lei, Estela, è arrivata dopo?
«Sì, assieme ai due bambini, ho raggiunto mio marito nell’ottobre successivo. Furono proprio i preti della Consolata ad aiutare moltissimo la nostra famiglia a ricominciare a vivere in modo decoroso e sereno, sia pur in una terra lontana. Ma ci siamo ambientati e adattatati gradualmente alla nuova realtà che ci aveva accolti. Ancor oggi, dopo quasi 40 anni, questa è la nostra Italia, questa la nostra Torino».