Giuseppe Ravizza e la sua rivoluzionaria invenzione: la macchina per scrivere
Lo sapevate che è novarese l’invenzione della prima macchina per scrivere? In effetti, se oggi stiamo scrivendo questo articolo utilizzando una tastiera è in parte anche grazie al contributo di un curioso novarese vissuto nell’Ottocento: Giuseppe Ravizza. Dopo la laurea in legge, Ravizza svolge durante i primi anni la professione di avvocato a Novara e di sindaco a Nibbiola. In quel periodo, viene a sapere che un certo ingegner Pietro Conti di Cilavegna sta studiando una macchina capace di scrivere meccanicamente. Lo incontra nel 1835 per poi impiantare un laboratorio in casa e iniziare a progettare una macchina per scrivere. Invenzione alla quale dedicherà buona parte della sua esistenza. Nel suo laboratorio, vicino a Palazzo Orelli, a Novara, allestisce il suo primo laboratorio e dopo diversi anni di studi e progetti nel 1837 mette a punto il primo dei 17 prototipi che avrebbe costruito nel corso dei suoi anni di vita.
Soltanto nel 1855 chiede e ottenne dall’ufficio centrale di Torino il brevetto per la sua macchina per scrivere a tasti che chiama “cembalo scrivano” per la somiglianza della tastiera con quella del cembalo o del pianoforte. Il prototipo ha già i caratteri fondamentali della macchina per scrivere che oggi conosciamo: la tastiera fissa che muove le leve, i caratteri minuscoli e maiuscoli interscambiabili, lo spostamento del carrello con un campanellino che segnala la fine della riga. Il prototipo si dimostra alquanto rumoroso, si inceppa facilmente e ha i tasti disposti in ordine alfabetico. Ma ben presto Ravizza si rende conto che quella disposizione non è ideale per scrivere velocemente. Così mette a punto quella che ancor oggi viene utilizzata sulle tastiere dei computer (sistema detto QWERTY in quanto riprende le prime 6 lettere in alto a sinistra della tastiera). Ciò rende la battitura più veloce e riduce drasticamente i tempi di elaborazione dei testi.
Ma, nonostante i tanti sforzi profusi, l’invenzione di Ravizza non riesce ad ottenere il giusto riconoscimento ufficiale. Anzi, la stampa dell’epoca lo boicotta, parlando di una invenzione inadatta e inutile. I suoi stessi amici e familiari non sopportano vederlo perdere il suo tempo, sporcandosi le mani e gli abiti e, quel che è peggio, spendere ingenti somme (si parla di oltre 100 mila lire, un’enormità per quei tempi) per costruire meccanismi considerati inutili.
Nel 1856 scrive: «Chiamare la meccanica in aiuto all’estesa e importante operazione dello scrivere, sostituire nell’uso generale della mano che traccia le lettere, l’azione d’un meccanismo, in cui le lettere sono già formate perfette e uniformi, invece che operare con una sola mano, operare con ciascuna delle dieci dita, ecco il problema che io mi sono proposto e alla cui soluzione attendo da anni».
Certo è che nel 1868 l’americano Christopher Latham Sholes (1819-1890) brevetta, per conto della Remington, una macchina da scrivere che si basa su principi del tutto identici a quelli della macchina di Ravizza. Siccome il Cembalo scrivano viene esposto anche in Inghilterra, si pensa che l’americano conosca bene la macchina dell’italiano e abbia approfittato dell’invenzione per farla sua, brevettandola Oltreoceano. A ricordare il povero Ravizza oggi è una targa posta in prossimità del suo laboratorio novarese.
Una curiosità per concludere. Già nel 1802 in Lunigiana il conte Agostino Fantoni aveva messo a punto una sorta di macchina per scrivere, ribattezzata “preziosa stamperia”, con la quale stampò alcune lettere che oggi si possono consultare presso l’Archivio di Stato di Reggio Emilia. Le pagine bianche erano state impresse con un inchiostro tipo carta carbone. Anche in questo caso esiste un primato: l’uso della prima carta carbone. Quello che è singolare è che il conte inventò la macchina per uso esclusivo della sorella Carolina diventata cieca e non si preoccupò di brevettare il suo originale congegno.
Piero Abrate