I ricordi d’un ex allievo del Don Gnocchi, tra rieducazione fisica e preparazione alla vita sociale
TORINO. Una città come Torino, con le sue affermazioni assistenziali legate ai nomi del Cottolengo, di Cafasso e di Don Bosco, non poteva non riservare ai mutilatini e poliomielitici di Don Carlo Gnocchi (1902-1956) una particolare benevolenza. Il Collegio Santa Maria Ai Colli, ospitato nel complesso di Villa Gualino, era costituito da padiglioni color ocra, chiuso da un muraglione di cinta in una proprietà di 23 ettari con orti, giardini, un parco con pini, lecci, larici… L’inaugurazione del grande collegio, la cui direzione e gestione fu affidata ai Fratelli delle Scuole Cristiane, avvenne il 13 novembre 1950, in occasione di una visita del presidente della Repubblica, Luigi Einaudi. Era il 25 maggio 1950 quando entrarono i primi 55 “mutilatini” e altri 48 vi giunsero il 23 giugno. Gli ospiti, in seguito a domande di ricovero, crescevano di numero e il 20 luglio erano 390.
Sin dall’inizio abbiamo ricevuto assistenza fisica e riabilitativa, ed istruzione da insegnanti di ruolo che venivano dalla città. Dopo le classi elementari e le medie, venivamo avviati alle scuole superiori per conseguire il titolo di perito industriali o di computista. Chi non aveva attitudini per lo studio era avviato ad attività artigianali: lavori di meccanica, falegnameria, sartoria, calzoleria, legatoria o al giardinaggio e all’agricoltura, per essere poi dimessi a 18 anni e, per qualche particolare ragione, anche a 20, 22 o 23 anni. A parte il periodo iniziale (sino al 1959) retto con “correttezza” dai direttori fratel Angelino Guiot, fratel Bertrando (a cui si deve il consolidamento dei rapporti del collegio con le autorità di Torino e con il mondo industriale e culturale della città) e successivamente da fratel Luigi De Alessi (“Gigetto” per tutti noi) che ricoprì il suo direttorato con intelligenza e saggezza (per poi lasciare l’incarico ai Fratelli Mattia ed Edesio), il metodo della rieducazione, sia in questo collegio che in altri della Fondazione “Pro Juventute”, doveva essere determinato dalla convergenza tra la vocazione e l’attitudine dei religiosi e la dipendenza della minorazione psicofisica imposta dal trauma. Ma non sempre le direttive e le scelte volte a migliorare la nostra vita collegiale hanno avuto l’esito sperato, sia per la mancanza di personale e la presenza di oltre 300 assistiti ogni anno, sia per i particolari problemi che gran parte di noi presentavamo.
La funzione gestionale ed educativa richiedeva l’intervento di assistenti-educatori e studenti universitari. Il contributo di questi ultimi ha alleviato di molto il lavoro e le responsabilità dei religiosi, ma in entrambe le figure, alcuni dotavano una disciplina eccessivamente rigida, e questo non ha certo favorito la corretta formazione di molti miei compagni, soprattutto nel primo periodo di degli anni ’60. Altri, invece, comprendevano di più i nostri problemi psicologici come l’assistente Ercole come me nella foto de 1964), erano più “accomodanti” o, più raramente, indifferenti…
Ciò nonostante, dopo l’internato (che durava dai 5 ai 12 anni), ormai adulti, molti di noi (come chi scrive) sono entrati a far parte della società; hanno un lavoro stabile e si sono formati una famiglia. Oggi, i collegi fanno parte di un lontano passato, in quanto non più ragione d’esistere: “mutilatini” e poliomielitici, ormai più che adulti, vivono di ricordi e in parte riconoscenti per aver fruito di assistenza e cura, e gran parte di questi istituti sono stati riattati per il trattamento di altri gravi handicap, e questo, attraverso la divenuta grandiosa opera di Don Gnocchi, ovvero la omonima Fondazione con il riconoscimento di onlus.