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“Ël diav sòp!”, la curiosa locuzione piemontese che si usa per indicare cibi troppo speziati

C’è un’espressione tipica della lingua piemontese, riferita ai cibi, che in particolare viene usata quando il sapore piccante è talmente marcato da apparire quasi di fuoco.

Per la cucina messicana, le spezie e i peperoncini sono la normalità: prima di tastare una cucchiaiata di fagioli – si sa – è opportuno procedere con estrema cautela, altrimenti si rischierebbe di saltare sulla sedia per quella fastidiosa e inevitabile sensazione di bruciore in bocca che neppure una sorsata di acqua gelata riuscirebbe a mitigare.

Nella cucina piemontese, a dire il vero, non mancano i piatti speziati, anche se l’impiego degli odori, e soprattutto delle spezie o delle “droghe” (come si chiamavano un tempo) viene sempre fatto “cum grano salis” (tanto per usare un’espressione in tema): morigeratamente, cioè.  Un segreto di molte massaie e di molti cuochi piemontesi, da tempo immemorabile, è stato l’impiego della miscela di spezie “La Saporita”, un preparato in bustina della torinesissima ditta “Antonio Bertolini”, storica azienda i cui marchi ormai da qualche anno sono passati di mano ed acquisiti dalla F.lli Rebecchi (Valtrebbia).

Quel prodotto esiste ancora, anche se oggi è commercializzato con alcuni ingredienti diversi. Il mix originale era stato creato per dar sapore ai primi piatti più importanti, come gli arrosti e i brasati, ma a lungo ha rappresentato un tocco di classe anche per rendere più appetitosa la “tagliata” all’albese e i ripieni degli agnolotti del plin. Quali erano dunque i componenti d’antan? Come si è ricordato, allora si chiamavano droghe, ma in realtà non erano che delle innocue spezie od erbe aromatiche, miscelate sapientemente: cannella, chiodi di garofano, noce moscata, coriandolo, zenzero ed altri ingredienti ancora.

Tutto dosato con equilibrio: la mistura era magistralmente armonica, e dopo aver tastato il primo boccone nessun commensale avrebbe mai esclamato: “A l’é ‘l diav sòp!”, ovvero: “È il diavolo zoppo!”, per far capire che il sapore del cibo era troppo piccante.

Il termine piccante (ovvero di sapore acuto e pungente) deriva dal francese piquer (pungere, piccare, pizzicare): è dunque legittimo, oltre che istintivo, collegare questa parola agli acuminati denti del forcone o del tridente del diavolo.

Ma perché proprio un diavolo zoppo? Qui entra in gioco la letteratura.

Il diavolo zoppo è un’opera dello scrittore bretone André René Lesage (1668-1747), pubblicata nel 1707. Il diavolo zoppo da lui descritto aveva “gambe di capro, il viso allungato, il mento aguzzo, il colorito giallo e nero e il naso camuso”: un diavolo, dunque, perfettamente conforme all’immaginario collettivo. Una notte, quel diavolo sorvolò Parigi, portandosi in groppa un giovane studente con cui aveva stretto un patto, ovviamente diabolico. Ma non si trattava di un tour turistico. Il diavolo voleva che il giovane si rendesse conto de visu della varietà di vizi e vanità cui ogni uomo, al di là delle pubbliche virtù, si abbandonava all’interno della propria abitazione. Il diavolo zoppo tese allora il braccio destro, e all’istante, tutti i tetti della città, illuminata a giorno, scomparirono. Lo studente poté così scorgere gli occupanti delle case (e svelarne gli altarini) cogliendoli in flagrante nei loro affari (non sempre ineccepibili), allo stesso modo in cui, sollevandone la crosta, è possibile vedere l’interno di una torta. Oppure, aggiungiamo noi, sfruttando la vista telescopica (alla Nembo Kid, o alla Superman che dir si voglia), scorgere gli ingredienti segreti nascosti all’interno di un piatto… troppo speziato. Da questo romanzo furono tratti due film, uno del 1908 ed un secondo del 1948.

Chi si nascondesse davvero dietro al diavolo zoppo non ci è dato di saperlo con certezza: forse Talleyrand, politico che seppe barcamenarsi abilmente (e forse diabolicamente) fra l’Ancien Régime e la Rivoluzione, e tra l’Impero e la Restaurazione, riuscendo sempre a ricoprire ruoli di potere di primissimo piano.

O forse il  diavolo zoppo non è che l’immagine di una figura che non è mai esistita, magari claudicante nella camminata, ma assolutamente sicura di sé nell’affrontare le difficoltà e gli imprevisti dell’esistenza, spesso piccanti e pepati.

Sergio Donna

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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