Il ghersino, “le petit bâton de Turin” che tanto piaceva a Napoleone
I grissini torinesi sono famosi in tutto il mondo. Ma chi pensa che siano quei cilindretti pallidi e regolari, impacchettati quattro alla volta, che si trovano sulle tavole dei ristoranti e servono a tacitare lo stomaco, si sbaglia. Quelli originali che facevano impazzire Vittorio Amedeo II e Napoleone sono tutt’altra cosa
Sulla bustina ci sono stampati Gianduia o la Mole, anche se il forno che li ha fabbricati sta a Verona o a Canicattì. Sulla busta c’è scritto “grissini torinesi”, anche se il grissino è un’altra cosa rispetto a quello realizzato industrialmente. Ma a chi spetta questa invenzione? Domanda ardua cui rispondere, perché c’è grissino e grissino, nella gran famiglia derivata dalla ghërsa (letteralmente fila; con grissa si indica la forma di pane), cioè l’antica pagnotta cilindrica lunga all’incirca due palmi. Il più famoso è il rubatà (traduzione letterale: caduto), che viene stirato o facendolo rotolare con le mani su un piano infarinato, o allungandolo tra le dita delle due mani con un gesto veloce.
Nella storia dei grissini, è doveroso citare il maestro panettiere Antonio Brunero, che nel 1679 li fece conoscere a Torino. Da allora, tutti i personaggi importanti che soggiornarono nella capitale sabauda ne furono conquistati: Napoleone voleva “les petits bâton de Turin” (i “bastoncini” di Torino) sempre sulla sua tavola, tanto che venivano spediti ovunque Sua Maestà Imperiale si trovasse. Già in precedenza, tuttavia, i bastoncelli di pane duro o di biscotto simili al pane (così li definì il filosofo Jean Jacques Rousseau) erano conosciuti e diffusi in Piemonte, tanto che esiste un documento del 1643 che vanta i prodotti dei grissinifici chivassesi.
I medici di Carlo Emanuele erano preoccupati per il diffondersi di una epidemia di peste e così il Savoia convocò i migliori panettieri affinché provassero a realizzare un tipo di pane sano e molto cotto. Il Brunero rispose all’appello del re dicendo che aveva inventato un pane biscottato che aveva chiamato ghersino. Da quel momento i grissini non mancarono mai sulle tavole dei Savoia.
Il medico Teobaldo Pecchio di Lanzo, che ebbe in cura Vittorio Amedeo II, giovane malaticcio e gracile, buttò via tutte le medicine che gli altri medici avevano prescritto al ragazzino e diede ordine che per qualche tempo egli mangiasse solamente grissini. Non possiamo essere certi che questa strana medicina sia stata la causa del recupero del giovane duca, fatto sta però che Vittorio Amedeo II si riprese e acquistò in breve tempo la salute. Nei conti della casa reale il 5 settembre 1724 è registrata una spesa di lire 28,12 per l’acquisto di una grande scatola di tela nella quale sarebbero stati messi i grissini che Carlo Emanuele III voleva portare con sé in occasione del suo viaggio di nozze.
Maria Felicita di Savoia, sorella di Vittorio Amedeo III e figlia di Carlo Emanuele III è conosciuta come principessa del grissino, infatti è ritratta in un quadro con un grissino in mano nell’atto di porgerlo a un cane. Pare che Carlo Felice sia stato il Savoia che più ha apprezzato i grissini: ne portava sempre con sé, anche a teatro, per poi sgranocchiarli durante gli spettacoli…
A conferma del ruolo emblematico svolto dal ghersino torinese vi è un esempio particolarmente indicativo: nella base dell’obelisco di piazza Savoia, posto il 7 maggio 1853, furono murati alcuni oggetti dotati di un importante valore simbolico: una copia della Legge Siccardi, due numeri della “Gazzetta del Popolo”, alcune monete, un sacchetto di riso, una bottiglia di barbera e… una casetta di grissini.
Massimo Centini