Alla scoperta di Mergozzo, tra lago, vicoli e panorami mozzafiato
VERBANIA. Il paese di Mergozzo, affacciato sulle sponde dell’omonimo lago, è primo comune dell’Ossola che s’incontra provenendo da Verbania. A pochi chilometri dalle più celebrate località turistiche del lago Maggiore e del Golfo Borromeo, Mergozzo offre ai visitatori molteplici elementi di interesse, capaci di soddisfare le aspettative del viaggiatore esigente.
Il capoluogo è adagiato nell’angolo nord-occidentale del lago, con le abitazioni del rione “Riva” disposte ad anfiteatro, mentre altre case, aggrappate alle falde granitiche del Montorfano, si raggruppano attorno a un edificio di epoca medievale, detto il “Castello”, formando il nucleo primigenio del paese, denominato “Sasso”. La cornice naturale in cui è inserito il centro abitato è di alta suggestione e reca ancora le tracce dell’azione modellatrice degli antichi ghiacciai “pedemontani” che, discesi a più riprese dalla val d’Ossola, avevano occupato l’intero bacino del Verbano e del Cusio, determinando la formazione dei grandi laghi prealpini, frutto del ritiro dell’ultima fase glaciale, all’incirca quindicimila anni fa. Originariamente unito al lago Maggiore in un unico invaso, il lago di Mergozzo se ne separò a seguito del deposito di detriti trascinati a valle dal fiume Toce.
Il lago e il paese sono circondati dai monti: da un lato il Montorfano, alto poco meno di 800 metri, che, ergendosi solitario all’imbocco della val d’Ossola, sovrasta la piana alluvionale di Fondotoce, dall’altro le prime propaggini della selvaggia val Grande, tra cui spiccano le creste frastagliate dei Corni di Nibbio. Le vicende storiche e le fortune economiche del paese ossolano sono strettamente legate alla pietra e all’attività estrattiva che, sin da tempi antichi, si pratica sulle montagne circostanti, dal granito bianco e verde del Montorfano al marmo di Candoglia, quest’ultimo ricavato dalle cave dell’omonima frazione di Mergozzo e affiorante, oltre che sul versante montuoso in riva sinistra del fiume Toce, anche ad Ornavasso in riva destra.
Il granito è classificato come “roccia primaria ignea intrusiva” che trae il nome dal latino granum, cioè fatto a grani, ma nella parlata locale, tra Ossola e Verbano, è chiamato anche “miarolo” o “migliarolo”, vocabolo derivante dal termine “miglio” perché l’aspetto della pietra, con la sua struttura granulare, ricorda appunto i chicchi del cereale. Nella provincia piemontese del VCO sono presenti tre varietà di granito: il rosa di Baveno, estratto dal monte Camoscio e sui versanti del Mottarone, il verde di Mergozzo e il bianco di Montorfano. Il più rinomato è il rosa di Baveno, cittadina lacustre poco distante da Mergozzo, che deve la propria notorietà all’intraprendenza della famiglia Borromeo, impegnata sin dal Cinquecento nell’attività mineraria, rivolta soprattutto all’esportazione della pietra nell’area milanese. Dapprima estratto solo da “trovanti”, cioè da massi erratici disseminati sul territorio e in seguito ricavato dalle cosiddette “pradere”, piccole cave di fondovalle, per lo sfruttamento intensivo del granito di Baveno occorre attendere il 1823, quando si rilasciò la prima concessione per l’apertura di una vera e propria cava, inizialmente coltivata con metodi manuali, ricorrendo al lavoro di centinaia di scalpellini. Di pari passo con il perfezionamento delle tecniche e con la meccanizzazione, dalla seconda metà dell’Ottocento ci si poté avvalere di metodi più evoluti, come il taglio a filo elicoidale e la segatura meccanica, che diedero notevole impulso all’estrazione.
Anche per il granito bianco di Montorfano, l’impiego in edilizia è già testimoniato nel Medioevo, trovando riscontro nei documenti del tempo, ma anche nell’osservazione dei numerosi edifici religiosi d’impianto romanico presenti in zona, costruiti con rocce granitiche ricavate da “trovanti”. Il piccolo abitato di Montorfano, una manciata di case radunate in una conca alle pendici del monte, è impreziosito infatti da un gioiello di architettura romanica edificato in pietra, la chiesa di San Giovanni Battista, innestata alla fine dell’XI secolo sulle fondamenta d’una costruzione più antica, un complesso battesimale paleocristiano datato al V-VI secolo che alcuni identificano con la primitiva pieve (parrocchia) di Mergozzo. Gli esordi dell’estrazione e lavorazione del granito di Montorfano per uso commerciale si fanno risalire al XVI secolo e della fioritura dell’attività estrattiva si trova testimonianza nella descrizione dello storico Paolo Morigia, che scriveva “Sopra il detto Monte v’è una predera grandissima di sasso detto Meiarolo”. Molto resistente alla compressione, all’abrasione e al carico di rottura, il granito, oggi estratto nella grande “cava Donna”, visibile a distanza con la sua tipica struttura a gradoni, trova molteplici impieghi nell’edilizia civile e industriale, nell’arredo urbano, nell’arte funeraria e nell’arredamento d’interni. Troviamo il granito bianco di Montorfano in molte architetture piemontesi, anche a Torino, dove questa pietra venne adoperata nella costruzione di portici e colonnati e per l’elegante ponte sul fiume Po dedicato alla principessa Isabella di Baviera (consorte di Tommaso di Savoia-Genova), edificato tra il 1876 e il 1880. Il granito verde di Mergozzo, che deriva il colore dalla presenza d’una vena cristallina di clorite (oggi non più estratto), si trova invece nella facciata dell’albergo Principi di Piemonte e nella pavimentazione del Cimitero Generale.
Tra i problemi più gravi riscontrati nel lavoro di cava v’era quello del taglio della roccia e, in una fase successiva, il trasporto a valle della pietra. Anticamente il taglio veniva eseguito con cunei di legno di betulla o di rovere che, inseriti nelle fenditure della roccia e imbevuti d’acqua, si dilatavano, determinando il distacco di grossi blocchi di granito. Alla fine del ‘700 s’introdusse il metodo di estrazione tramite esplosione con polvere nera: usando ferri dalla punta tagliente, percossi con mazze, si praticavano nella roccia dei profondi fori, che servivano per l’inserimento della miccia e della polvere da sparo, poi richiusi con argilla e fatti esplodere per allargare il buco. L’operazione andava ripetuta più volte, con intervalli di ore e molta dispersione di materiale, sino al distacco del masso. Per il trasporto a valle, qualora, per l’eccessiva pendenza, non fossero utilizzabili i carri, si ricorreva a slitte (struse) trattenute con funi e fatte scorrere lungo vie lastricate dette lizze. Una volta a fondovalle ci si avvaleva delle idrovie, il lago Maggiore per le cave di Montorfano e il fiume Toce per Candoglia.
Il marmo estratto in località Candoglia deve invece la propria fama all’uso esclusivo che si fece di questa pietra nel cantiere del Duomo di Milano, grazie a un privilegio concesso da Gian Galeazzo Visconti nel 1387. Tuttora la “Veneranda Fabbrica del Duomo” gestisce l’estrazione del marmo, impiegandolo, quando necessario, per la sostituzione e riparazione degli elementi scultorei danneggiati o da restaurare. Le varietà adoperate erano essenzialmente tre: il marmo rosa, il più ricercato per colore, compattezza, resistenza, quello bianco, più diffuso e usato anche per la statuaria, e infine la varietà grigia, impiegata nelle strutture portanti. Le modalità di trasporto dei marmi locali da Candoglia a Milano, effettuata tramite imbarcazioni che sfruttavano le vie d’acqua, il lago Maggiore, il Ticino e i Navigli, è all’origine, secondo la tradizione, dell’espressione idiomatica “viaggiare a ufo” (anche “mangiare a ufo”), cioè senza pagare, con connotazione negativa, quindi a sbafo.
Le barche in questione, infatti, godevano di un regime agevolato ed erano esentate dal versamento dei dazi normalmente applicati alle merci: per segnalarle ai gabellieri, che riscuotevano il dazio alla conca di Viarenna, le barche riportavano la scritta “AD USUM FABRICAE AMBROSIANAE”. Dall’acronimo di questa formula, A.U.F.A., sarebbe derivato il modo di dire “viaggiare a ufa”, poi mutato in “ufo”, per indicare appunto chi approfitta di un trasporto senza pagarlo. Esiste poi una versione fiorentina, che collega l’origine dell’espressione ai materiali destinati alla costruzione del Duomo, anch’essi esclusi dall’applicazione di dazi e imposte, e contraddistinti dalla scritta Ad usum florentinae operae (A.U.F.O.). Il poeta Giuseppe Gioachino Belli, infine, riferisce lo stesso termine, “auffa”, in romanesco “gratuito”, come derivante dalla sigla A.U.F.A., Ad usum fabricae operis, che contrassegnava i materiali impiegati per la Fabbrica di San Pietro, perché passassero i controlli dei gabellieri senza pagare il dazio.
Il paese di Mergozzo, con il suo reticolo viario imperniato sull’asse centrale chiamato “ruga”, racchiude diversi elementi d’interesse, dalla chiesa romanica di santa Marta, risalente al XII secolo, in origine intitolata ai santi Quirico e Giulitta, due martiri, madre e figlio, caduti a Tarso in Asia Minore al tempo della persecuzione dioclezianea (305), alla parrocchiale della Beata Vergine Assunta che, eretta nel Seicento sul luogo d’una preesistente chiesa medievale, conserva diverse opere d’arte, tra cui ricordiamo la pala d’altare eseguita nel 1623 dal pittore novarese Carolus Canis, raffigurante la Madonna del Rosario con Santa Caterina e San Domenico ai lati e il paese di Mergozzo, visto in prospettiva dal lago, adagiato ai suoi piedi. Nell’opera compare un elemento significativo, determinante per la datazione del maestoso albero plurisecolare che oggi prospera sulla piazza del paese, a pochi metri dalle rive del lago. La pianta, registrata nell’elenco degli alberi monumentali del Piemonte, è un olmo campestre, appartenente alla specie Ulmus minor, caratterizzante da sempre il paesaggio agrario piemontese e usata in passato a scopo ornamentale, ma falcidiata negli ultimi decenni dalla grafiosi, malattia responsabile della distruzione di molte imponenti alberate europee. Si ritiene che l’olmo di Mergozzo abbia superato i 400 anni di età e un sicuro indizio è fornito proprio dalla pala d’altare del Canis, in cui, nella rappresentazione del paese di Mergozzo, si può facilmente riconoscere il nostro olmo, ovviamente piantumato da poco. Lì, sotto le sue fronde, si tenevano le adunanze dei consoli e dei dignitari del luogo, per decidere di questioni importanti per la comunità.
Dedichiamo infine un cenno alle tradizioni gastronomiche di Mergozzo, influenzate dalla presenza del lago con le diverse specie ittiche commestibili che ne popolano le acque, anche grazie alla recente creazione di un incubatoio, voluto dalla locale Associazione Pescatori Dilettanti con il supporto del comune allo scopo di arricchire le popolazioni ittiche del lago con la semina di novellame. Tra queste è particolarmente ricercato il persico reale, ma vi sono anche agoni, alborelle, bottatrici, carpe, cavedani, coregoni, lucci, salmerini, trote lacustri e rari esemplari di barbo e savetta. Per gustare le specialità della cucina locale, e piemontese in generale, ci si può sedere ai tavoli del “Grotto la Dispensa”, situato nel capoluogo, oppure immergersi nella quiete di borgata Bracchio, dove è attiva la trattoria “Il Risottino” che, come suggerisce il nome, valorizza il riso come ingrediente principe dei suoi piatti.
Imperdibile è poi una sosta alla panetteria pasticceria “La Fugascina”, da qualche tempo anche ristorante, incastonata nei vicoli del centro antico, che propone come prodotto di punta la Fugascina di Mergozzo, biscotto di forma quadrata e piatta, dolce e friabile, frutto di un impasto di burro, zucchero, farina di frumento, rosso d’uovo, aromatizzato con scorza di limone grattugiata e l’aggiunta di un bicchierino di marsala o, in alcune varianti, di grappa.