Il libidinoso caffè con panna della storica “Latteria Ghigo” sotto i portici di via Po
TORINO. Sarà che sono goloso, ma a me parlar di panna fa venire l’acquolina in bocca, la salivëtta an boca, come diceva mia nonna Giovanna. Quando mi capita di passare davanti alla Cremeria Ghigo, sotto i portici di Via Po (al civico 52, a due passi da Piazza Vittorio), uno dei più frequentati “templi” torinesi della panna (non l’unico per la verità), ebbene, lo confesso: non riesco a far a meno di entrare. In realtà, da Ghigo c’è da perdersi con tutte quelle squisitezze di pasticceria che occhieggiano nella vetrina, (le bignòle allo zabajone e le meringhe, solo a guardarle, promettono ineffabili delizie del palato), ma la panna di Ghigo è sempre la panna di Ghigo. Da sempre. Non è solo irresistibile: è anche irrinunciabile.
Il Bar Pasticceria Ghigo sta lì da quasi centocinquant’anni, essendo stato aperto nel 1870. La denominazione originaria era “Latteria Ghigo”. Il locale è stato giustamente inserito nel Registro delle Imprese Storiche della città, con un riconoscimento concesso dalla Camera di Commercio di Torino, forse troppo tardivo, solo nel 2012. Certo, l’arredamento non ha più nulla a che vedere con il tipico stile ottocentesco delle botteghe torinesi dell’epoca, con scaffali, boiserie e banconi in legno di noce in massello, ma le ricette, miracolo benedetto della tradizione dolciaria subalpina, quelle non sono mutate affatto da allora. Per nostra fortuna. Il locale è anche passato più volte di mano, ma − come una fenice − ad ogni cambio di proprietario, si è sempre ripresentato ai torinesi con rinnovato smalto e accattivante glamour.
Per chi, come me, non sa resistere alla tentazione di entrare in questo storico locale, allora una tazza di caffè con panna, diventa di prammatica. La panna di Ghigo è già di per sé uno spettacolo nel momento stesso in cui sta montando nella centrifuga troncoconica in lucido acciaio (che è simile ad una moderna zàngola per il burro), che è posta in bella vista dietro al banco-bar. Viene montata sul momento, a piccole quantità, in modo che sia sempre fresca per gli avventori che ne fanno richiesta. Se per caso fosse finita, non c’è da preoccuparsi. Sarà pronta una nuova dose dopo soli cinque minuti d’attesa. Giusto il tempo che si formi: morbida, soffice, cremosa, compatta, candida come la neve (non a caso, in piemontese, la panna si chiama fiòca). Viene servita in una dose abbondante su di un piattino posto accanto ad una capace tazza di caffè.
Ed è a quel punto che inizia la libidinosa degustazione. Il rito. C’è chi si versa la panna a piccole dosi nella tazza, per non far raffreddare troppo il caffè; c’è chi preferisce riempire fino al bordo la tazza di tutto il morbido complemento, ed affondarci il cucchiaino, aprendo nel biancore della panna varchi di sfogo, in cui far fuoriuscire rivoli marroni di caffè. In ogni caso, il connubio è sublime.
Il caffè con panna di Ghigo vale assolutamente una tappa. Fidatevi di me, che sono un inguaribile ghiottone. Ci sono passato davanti. Non ho resistito. Sono entrato. Ho ordinato un caffè con panna. E ancora mi lecco i baffi al solo pensiero di aver appena gustato il piacere assoluto di tanta voluttuosa, avvolgente, cremosa e “pannosa” (si può dire?) incomparabile bontà.