Il piemontese: sarà una lingua morta?
Uno studio dell’Università di Torino mette in guardia i torinesi sul pericolo che scompaia per sempre il loro particolare “accento”, per le continue contaminazioni della parlata locale con altre lingue regionali d’Italia o straniere
Dopo aver letto l’interessante articolo di Christian Benna pubblicato il 15 Agosto 2022 sul Corriere della Sera, Edizione di Torino, a commento delle risultanze emerse da un’autorevole ricerca condotta dal Laboratorio di fonetica sperimentale “Arturo Genre” dell’Università di Torino (a cura del prof. Antonio Romano) sullo stato di vitalità della Lingua piemontese, come appassionato di questo idioma, e preoccupato dal quadro emerso da questa ricerca, mi preme esprimere in merito alcune considerazioni.
Il Piemontese è una lingua romanza: non è un dialetto, ma una lingua censita dall’Unesco (e come lingua è riconosciuta dai glottologi di tutto il mondo) che è stata inserita nell’Atlante di quelle in pericolo di estinzione e meritevoli di tutela.
Tutte le lingue, tutti i dialetti si evolvono e si aggiornano nei secoli, adattandosi agli inevitabili mutamenti socio-economici, politici, tecnologici e congiunturali. Il Piemontese ha accolto, fin dalla sua genesi (risalente al XII secolo) nel suo lessico termini di origine celtica, ma anche araba, germanica e di altra matrice. Per i reiterati periodi di occupazione francese (ai tempi di Francesco I e Enrico II nel Cinquecento – 1536-1557 – e nel periodo napoleonico) non mancano contaminazioni (spesso introdotte e imposte dagli occupanti) della lingua transalpina. Del resto, in Savoia, baluardo dello Stato Sabaudo, si è sempre parlato francese e il francese, almeno fino al 1860, data della cessione di questa regione alpina alla Francia (insieme alla Contea di Nizza) era una delle lingue ufficiali dello Stato. Per i numerosi scambi commerciali con la Provenza e il Delfinato, non mancano parimenti influenze linguistiche occitane e francoprovenzali.
Le contaminazioni (entro un certo limite, ovviamente) sono l’arricchimento e l’ammodernamento di una lingua e rappresentano un modo essenziale per tenerla in vita e per non trasformarla in una lingua morta.
Anche il piemontese moderno, come succede del resto per l’italiano e per qualsiasi altra lingua, si espone alle contaminazioni delle lingue prevalenti della globalizzazione; né si sottrae agli effetti di certi filmati postati sui social (soprattutto se a pubblicarli sui loro profili sono i cosiddetti “influencer”) che propinano neologismi che fanno breccia in primis tra i giovani, e talvolta si espandano a macchia d’olio fino al punto di diventare “virali”, contaminando le lingue e le parlate locali. Ciò vale, oltre che per certi termini di nuovo conio, anche per certe inedite locuzioni verbali, e persino per il modo insolito e poco ortodosso di pronunciarle (penso al cosiddetto parlato “corsivo” recentemente introdotto e diffuso sul web, ma rivelatosi una moda effimera tra gli adolescenti).
Sono pienamente d’accordo su quanto scritto nell’articolo a proposito della ormai rara presenza di piemontesofoni nel capoluogo subalpino. E che il piemontese proposto sulle insegne dei locali di qualche coraggioso imprenditore commerciale torinese sia spesso scritto in una grafia discutibile e in contrasto con il lessico, la grammatica e la sintassi ufficiale della koiné. Ma queste insegne, anche se propongono termini non proprio corretti, sono anche l’espressione della resilienza di una lingua e di una cultura che non vuole morire.
Per fortuna i torinesi e i piemontesi autentici (sono ancora 2 milioni a parlare – più o meno correntemente – il piemontese, ed almeno un altro milione a capirlo), anche se stanno perdendo l’abitudine a usarlo al di fuori della famiglia, hanno ancora nelle orecchie la musicalità e la cadenza della lingua dei loro antenati e se parlano italiano, lo parlano con quell’accento particolare che distingue un piemontese o un torinese da un italiano di qualsiasi altra regione. Un timbro di fabbrica che ancora fa la differenza.
Detto ciò, è bene ricordare che il piemontese continua ad essere correntemente e ampiamente parlato nei borghi e nelle città di provincia, e non solo dalle comunità sinti citate nell’articolo.
Un piemontese di fine Ottocento, con termini spesso diventati obsoleti in Piemonte, è tuttora parlato nella Provincia di Córdoba, nella Pampa Gringa argentina, dove almeno 500.000 discendenti di emigranti piemontesi, legatissimi alle loro radici d’oltreoceano, lo praticano, lo studiano, per mantenerlo coraggiosamente e orgogliosamente in vita.
Ciò che manca qui da noi è la volontà politica di difendere, promuovere e valorizzare una lingua parlata da mille anni, simbolo di una cultura che ha sviluppato una ricca e preziosa Letteratura, con autentiche gemme, sia in prosa che in poesia.
Come possiamo fare per non perdere questo prezioso retaggio culturale? Occorre che le Istituzioni sostengano le Associazioni Culturali impegnate sul fronte linguistico regionale e su quello delle tradizioni del territorio (danze popolari, sagre tradizionali, ecc.) con una maggiore vicinanza, prestando loro una maggiore attenzione politica. Ma anche con l’istituire corsi basici nelle Scuole Elementari e Medie di Lingua e Cultura piemontese, così come accade in altri Paesi europei (in Francia, per la Lingua corsa e occitana; in Spagna per la Lingua catalana e basca; in Austria, per il mantenimento delle feste tradizionali popolari; in Inghilterra, a sostegno della Lingua gaelica, in Irlanda per la lingua celtica e così via). Speriamo che ciò accada al più presto se vogliamo salvare una lingua millenaria di grande fascino.
Sergio Donna