ENRICO REMMERT
Appartiene a quella ricca “fauna”, fortunatamente assai prospera in Piemonte, di scrittori e giornalisti che amano interessarsi di tutto e che di tutto amano discorrere e scrivere, con serietà, preparazione e cognizione di causa. Enrico Remmert, 52 anni e più di venti coronati da pubblicazioni editoriali narrative, antologiche, saggistiche di ogni tipo, si racconta in esclusiva per i nostri lettori. La sua più recente fatica, l’antologia di racconti La guerra dei Murazzi, uscita poco meno di un anno fa, è ancor oggi annoverata meritatamente tra i best sellers nelle librerie della nostra regione e non solo.
Sappiamo di mille e mille esperienze praticamente in tutti i settori della comunicazione di massa, ma come nasce lo scrittore Enrico Remmert?
Avevo circa 16 anni e mi piaceva solo disegnare. Poi mi capitò di leggere Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli. Fu un un’illuminazione. In quella raccolta di racconti, per la prima volta in vita mia, sentivo raccontare la contemporaneità a cui appartenevo. Quel libro parlava di me, e in quel momento. C’era il parlato giovanile, la musica, il fumetto, il cinema, storie forti, grandi dialoghi e nessuna paura di raccontare con sincerità tanti tabù e tante vite borderline. Era un libro “mio coetaneo” e, soprattutto, mi svelava la possibilità di leggere qualcosa che sentivo particolarmente vicino, a livello cronologico, a livello ideologico, a livello di vissuto personale. Da lì a poco avrei scoperto Bret Easton Ellis, David Leavitt e Jay McInerney – tutti scrittori che non ho mai più riletto, a essere sincero – ma che ai tempi mi stavano traghettando nella contemporaneità, quella che poi avrei scelto sempre come tema di tutto quello che ho scritto. Più avanti ho scoperto che la contemporaneità di un libro non sta nella cronologia ma nei temi – cosa c’è di più attuale di Furore di John Steinbeck? – ma allora dovevo ancora fare quel grande salto: innamorarmi della lettura e dei libri. Be’, ho letto circa mille libri in quel decennio, poi ho deciso che potevo provare a scrivere. Non so se sia andata bene o male, ma diciamo che la scrittura è diventata il mio lavoro, applicata in moltissimi ambiti diversi.
E poi arrivò Rossenotti, con il determinante incoraggiamento di Grazia Cherchi…
Rossenotti fu il frutto di quei dieci anni di letture: mi venne voglia di scrivere, come dicevo sopra. A quei tempi lavoravo in un’azienda informatica ma sapevo di avere una storia da scrivere, scrivevo tutte le notti, tutti i week-end, in ogni attimo libero dal lavoro. Nel ‘93 o nel ‘94, non ricordo più, saltai anche le vacanze estive per scrivere e basta: quell’anno praticamente lavorai 365 giorni e, sommando il lavoro in ufficio a quello del libro, credo fossero 12 o 13 ore al giorno, ogni giorno. Alla fine venne fuori questo manoscritto. Lo lesse Dario Voltolini e lo passò alla Cherchi. Lei era entusiasta, lo segnalò sulla sua rubrica settimanale – da manoscritto! una cosa più unica che rara – e Feltrinelli mi chiamò. Era maggio. In quell’estate Grazia morì all’improvviso. Verso Natale scrissi a Feltrinelli, timidamente, e mi tornò indietro una lettera prestampata “Caro/a amico/a” e insomma: ciao. L’anno dopo incontrai Voltolini al Salone del Libro e mi chiese: quando esce il libro? E io risposi: mai, e gli raccontai la storia. Lui mi disse di mandarlo a Giulia Castagnone, allora direttore editoriale di Marsilio e grandissima traduttrice di Bukowski: due giorni dopo l’invio della busta con il manoscritto mi chiamò in ufficio – nell’azienda informatica – e “lo facciamo”, mi disse. Ero incredulo. Due anni senza risposta e in due giorni il libro era sbloccato. Uscì poi nel ‘97, con un buon successo in Italia, uno notevole in Germania e uno enorme – e per me ancora inspiegabile – in Francia.
Ci parli della sua collaborazione con Luca Ragagnin: quali sono stati i relativi sviluppi nel tempo e i punti di contatto che vi han permesso di portare avanti la collaborazione?
Per me Luca Ragagnin è un fratello. Questo è il primo punto di contatto. Poi ce ne sono altri, in particolare il fatto che siamo due lettori fortissimi (lui ancora più di me, e credo sia uno dei più grandi lettori al mondo, senza scherzi). Scriviamo insieme da quasi vent’anni. Se fosse una donna, lo sposerei.
Un libro interessantissimo e prezioso, non solo per fini turistico-enogastronomici, è L’acino fuggente, un viaggio tra i vini e la cucina del nostro Piemonte che sembra quasi un omaggio a Mario Soldati e alla sua celeberrima inchiesta televisiva del 1957-’58…
Ecco: un altro punto di contatto con Luca è il vino buono. L’acino fuggente è una sorta di guida eno-gastronomica-turistico-letteraria dei luoghi del Piemonte che amiamo di più: Monferrato, Langhe e Roero. Ci venne letteralmente commissionato da Laterza. A ripensarci, è stata l’unica volta in vita mia che mi sono divertito mentre scrivevo. In genere non trovo affatto divertente scrivere, anzi: è faticoso, frustrante, soprattutto per i meticolosi e i perennemente insoddisfatti, come me. Invece con L’acino fuggente è stato divertente: è un reportage contemporaneamente serio e scanzonato, in quel senso Soldati è stato un grande insegnamento.
E che dire del suo libro più recente, La guerra dei Murazzi?
Tutti i libri che ho scritto fino a oggi, alla fin fine, raccontano la stessa identica storia: un protagonista smarrito all’interno di una vicenda più grande di lui. Anche i quattro racconti de La guerra dei Murazzi si muovono su questa linea ossessiva. In ciascun racconto il centro è sempre occupato da un momento preciso, quello in cui una storia piccola e intima si trova a confrontarsi con la Storia, quella con la s maiuscola. Ma mi hanno fatto notare altri elementi tematici comuni: tre racconti su quattro finiscono nella violenza (e il quarto ha come sottotesto Hiroshima). E poi mi hanno fatto notare che sono quattro storie d’amore: due classiche – una donna ama un uomo, un uomo ama una donna -, una terza è sull’amore per i cani e la quarta è sull’amore per un’intera cultura, quella giapponese.
Lei è padre di due ragazzine. Ne approfittiamo per porle una domanda che ci sta molto a cuore: è poi vero il sospetto che agli adolescenti del nostro tempo stiano venendo meno la fantasia e soprattutto la voglia di raccontare? Vogliamo dire: c’è forse il rischio di avere in futuro una narrativa più asettica e standard, senza più guizzi di originalità ?
Non credo. Raccontare è l’unico motivo per cui ha senso che si siano sviluppate le lingue, se no ci basterebbero un po’ di suoni gutturali per organizzarci e andare a caccia nei boschi e tirare avanti. È il racconto quello che ha permesso il progresso dell’umanità: la capacità di rivedere il passato e immaginare il futuro, la capacità di trasmettere esperienze e conoscenze, di empatizzare con gli altri uomini, di soffrire per loro o gioire con loro. Parte tutto da lì. Non a caso tutte le prime opere scritte, stiamo parlando di migliaia di anni fa, sono racconti: il Codice di Hammurabi, prima che un testo giuridico è un’opera letteraria. Insomma: io sono ottimista! E le mie figlie si nutrono di storie esattamente come tutti gli altri adolescenti del mondo.