La cupola ellittica più grande del mondo? E’ a Vicoforte
Alla scoperta del santuario, poco distante da Mondovì, che doveva diventare sepolcreto dei Savoia prima di Superga
A poca distanza da Mondovì, nel territorio comunale di Vicoforte (Vico fino al 1862), sorge il Santuario della Natività di Maria Regina Montis Regalis, grandioso complesso architettonico che rappresenta uno dei poli principali della devozione mariana in Piemonte.
Il percorso di avvicinamento al santuario, adagiato nella valletta di Vico, tra le propaggini delle Alpi monregalesi, suscita sorpresa nel viandante quando, d’improvviso, compare all’orizzonte l’immensa cupola “ovata”, la quinta al mondo per dimensioni, ma la prima se si considerano solo quelle di forma ellittica, che, sorretta da un alto tamburo e sormontata da un’ardita lanterna (cupolino), domina l’insieme di fabbricati religiosi e civili costruiti a partire dal tardo Cinquecento.
A Vicoforte si può giungere nelle vesti del pellegrino, come spesso fece il duca Carlo Emanuele I di Savoia, per rivolgere una preghiera alla Madonna di Vico, qui venerata sin dal Cinquecento, quando il borgo faceva parte della municipalità di Mondovì (da cui fu smembrato alla fine del XVII secolo), ma anche per conoscere un luogo intriso di memorie storiche, che i Savoia, animati da autentica devozione cristiana e da ambiziosi disegni politici, vollero trasformare, valendosi di geniali progettisti come Ascanio Vitozzi e Francesco Gallo, in un capolavoro dell’architettura manieristica e barocca, strumento di affermazione del prestigio dinastico.
Entrando nella chiesa, si nota al centro del vasto ambiente una sfarzosa struttura a baldacchino in marmi policromi, già pensata da Francesco Gallo, ma portata a termine da Bernardo Antonio Vittone, in cui appare incastonato come gemma preziosa l’antico pilone con l’effigie di fine Quattrocento della Madonna del Monte Regale, il cuore pulsante del santuario, attorno a cui si è sviluppato nei secoli il complesso sacro. Il culto mariano di Vico trasse origine da un avvenimento miracoloso che ebbe come protagonista proprio l’affresco della Vergine con il Bambino, oggi situato all’interno della chiesa, di cui è il fulcro devozionale, ma a quel tempo isolato nella quiete campestre.
Secondo documenti e testimonianze, il fatto prodigioso avvenne nel 1590-92 quando un cacciatore colpì senza volerlo con un’archibugiata il pilone, nascosto da arbusti e rovi. L’immagine della Madonna, nel punto in cui era stata colpita, cominciò a effondere sangue, attirando su di sé l’attenzione della comunità di Vico e diventando presto meta di pellegrinaggio. La dinamica dei fatti all’origine del culto mariano di Vico, che si espanse a tal punto da giustificare la costruzione di un oratorio e di una foresteria per i viandanti, corrisponde a uno schema comune a molte narrazioni miracolistiche che furono alla base della fondazione di santuari mariani nell’Europa cattolica tra Medioevo e età moderna.
Talvolta la figura cui si addebita l’atto sacrilego, intenzionale o dovuto a negligenza, è un cacciatore incauto, come nel caso di Vico, in altri casi un giocatore iconoclasta, come a Vercelli, dove nel 1575 un uomo, colto da ira, schiaffeggiò una statua della Madonna, provocando una serie di prodigi, tra cui la comparsa di lividi sulla statua, dando così origine al culto della Madonna dello Schiaffo. Le numerose “Madonne del Sangue” venerate in santuari piemontesi, come quello di Re in val Vigezzo, fanno parte di questa tipologia di miracoli.
Di lì a poco la fama della Madonna di Vico si propagò, suscitando l’interesse delle autorità municipali e del vescovo di Mondovì, che, fatte le debite verifiche, ne promossero il culto e la trasformarono in un nuovo vessillo dell’identità religiosa cittadina, rimasta orfana, dopo la demolizione dell’antica cattedrale di San Donato, della sede fisica dell’originario culto patronale. L’operazione, come risulta dagli studi del ricercatore Paolo Cozzo, oltre al sincero impulso devozionale, aveva anche una finalità ideologica, che va letta nel quadro delle complesse relazioni tra le autonomie municipali, derivate dalla stagione dei comuni, e la crescente ingerenza del potere statale, legato all’egemonia sabauda. L’obiettivo perseguito dai Monregalesi, nella dialettica tra vescovo e comune, fu quello di alimentare il culto mariano di Vico, sottraendone la gestione alle autorità locali e elevandolo a devozione civica, motivo d’un rinnovato orgoglio comunale.
Fu nell’ultimo scorcio del Cinquecento, con il duca Carlo Emanuele I, impegnato nella costruzione d’un forte potere statuale, che i Savoia, da secoli devoti alla Vergine, intuirono le potenzialità del culto legato alla Madonna di Vico, assegnando la conduzione del santuario non più al vescovo e alle autorità municipali, bensì a ordini religiosi indipendenti (ma fedeli a casa Savoia). Chiamati dal duca, i Gesuiti vi fondarono una penitenzieria e i Foglianti, congregazione distaccatasi dall’ordine cistercense, si installarono nell’attiguo monastero. Il culto mariano di Vico, non più confinato a una realtà locale, venne quindi proiettato in una dimensione dinastico-statale, e questa “appropriazione” da parte dei Savoia spiega gli importanti investimenti compiuti dal duca Carlo Emanuele I per finanziare i lavori di costruzione del complesso, inizialmente affidati all’architetto orvietano Ascanio Vitozzi, che si basò su precedenti disegni forniti da Ercole Negro di Sanfront. Il cantiere, rallentato alla morte del Vitozzi (1615) e poi del duca (1630), riprese la piena attività un secolo più tardi con l’intervento dell’architetto e ingegnere Francesco Gallo, maestro del barocco piemontese, cui si deve l’innesto del possente tamburo e della maestosa cupola “ovata” in mattoni rossi sul severo basamento manieristico in arenaria locale già realizzato dal Vitozzi.
L’importanza attribuita dai Savoia alla promozione del sito trovò conferma nella scelta di allestire all’interno del santuario il sepolcreto dinastico, con le spoglie dei membri della casa ducale accolte nelle cappelle laterali. Il progetto venne poi accantonato, perché le attenzioni dei duchi si rivolsero in seguito al santuario di Oropa, più vicino alla nuova direttrice di espansione verso est, e alla basilica di Superga, scelta nel Settecento come sacrario della dinastia, però si fece in tempo a erigere la cappella di San Bernardo, che ospita la tomba del duca Carlo Emanuele I, così devoto alla Madonna di Vico da giungervi spesso in veste di umile pellegrino. Dirimpetto al sepolcro del duca, scolpito dai fratelli Collino, si trova il monumento a papa Pio VII che, prigioniero di Napoleone, transitò a Vico diretto a Savona nel 1809, e a lato le due semplici tombe che accolgono dal dicembre 2017 i resti mortali di Vittorio Emanuele III di Savoia, penultimo re d’Italia, qui traslato da Alessandria d’Egitto, e della moglie, Elena del Montenegro, trasferita da Montpellier.
Nella cappella di San Benedetto è visibile invece il cenotafio della principessa Margherita di Savoia-Gonzaga, figlia prediletta di Carlo Emanuele I, dal 1634 viceregina del Portogallo, le cui spoglie si trovano però non a Vico, dove avrebbe desiderato, bensì in un monastero di Burgos in Spagna, terra in cui morì nel 1655 durante il viaggio di rientro in Piemonte.
L’esterno del santuario, oltre che dalla monumentale cupola, è segnato dai quattro campanili, previsti dal disegno del Vitozzi, ma rimasti incompleti sino agli ultimi lavori di sistemazione eseguiti negli anni Venti del Novecento, e dalla imponente “Palazzata”, sequenza di uniformi edifici porticati in cotto che delimitano il piazzale antistante l’ingresso e che, già contemplati dal progetto vitozziano per ospitarvi l’Ostaria, l’Ospizio dei Pellegrini e la Casa del Duca, presero forma definitiva solo nell’Ottocento.