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La “Bionda piemontese”e quel particolare modo di dire legato al lavoro delle galline

VILLANOVA D’ASTI. Ci sono delle galline che parlano piemontese. Lo sapevate? Sono le “nostraline”, ovvero le galline (e i galli) che ostentano orgogliosamente un nobile pedigree di appartenenza alla nobile razza “Bionda piemontese”. Risiedono nelle aree rurali delle provincie di Asti, Cuneo e Torino, e razzolano liberamente allo stato brado nei prati circostanti ai loro pollai. I loro coccodé e i loro chicchirichì rivelano però accenti e sfumature dialettali diverse a seconda che si tratti di galline e galli della zona di Cuneo (Bionda di Cuneo), di Villanova d’Asti (Bionda di Villanova) o di Buttigliera d’Asti (Bionda delle Crivelle, frazione di Buttigliera). Gli esemplari di razza “Bionda piemontese” sono fieri della loro indiscussa e comune piemontesità, ma con altrettanto puntiglio, non rinunciano mai a distinguere la loro precisa area di nascita e di residenza. Non c’è da stupirsi: succede così anche per molti esseri umani.

Si tratta di una razza avicola pregiata, tipica da cascina, apprezzatissima sia per le carni che per le uova. Fino alla metà del Novecento, questa razza rappresentava l’80% del totale delle galline e dei polli presenti nei pollai piemontesi.

Si racconta che quando una figlia si sposava, e formava un nuovo nucleo famigliare, era tradizione che le venissero assegnate in dote alcuni esemplari di Bionde piemontesi ed almeno un gallo per la creazione di un nuovo pollaio. La continuità dell’allevamento della razza autoctona era così garantito di madre in figlia. Per evitare poi che le uova “gallate” vendute sul mercato (anziché essere utilizzate in cucina) fossero fatte covare per far nascere nuovi pulcini clandestini di razza Bionda piemontese, queste venivano preventivamente forate con uno spillo per renderle sterili.

Le “Bionde piemontesi” hanno un portamento fiero, sottolineato dal loro piumaggio fulvo e dalla coda che tende al nero o al blu, che ne esalta l’eleganza. Le piume sono aderenti al corpo, così che il loro profilo appare slanciato e snello, soprattutto per i maschi.  

Le femmine depongono dalle 180 alle 200 uova l’anno, dal peso di 55-60 gr. ognuna; il colore del guscio varia tra il bianco crema e il rosato. Il peso varia tra i 2,5 e 2,8 kg. per i maschi e i 2-2,3 kg. per le femmine.

Sono animali rustici, robusti, ideali per un allevamento di tipo biologico o estensivo (come da tradizione, gli animali nelle ore diurne sono lasciati al libero pascolo nelle aree circostanti gli edifici rurali), da tempo ben adattati ai climi continentali del Nord Italia, per loro divenuti ideali.

Come già s’è detto, si tratta di una razza ovaiola e da carne, a rapido accrescimento. Se utilizzati per la produzione di carne, gli esemplari raggiungono il loro peso ottimale attorno alle 16 settimane. Alla razza Bionda piemontese è stato riconosciuto lo statuto di Prodotto Agroalimentare tradizionale (P.A.T.). Il quantitativo complessivo di esemplari di questa razza si attesta oggi su qualche migliaio di capi, ed è attualmente molto più ridotto rispetto al passato. Grazie però al sostegno dell’Istituto Professionale per l’Agricoltura e l’Ambiente di Verzuolo (Cn) e della Federazione Italiana delle Associazioni Avicole (F.I.A.V.), a partire dai primi anni 2000 l’allevamento di questa razza risulta in netto recupero.

Molti degli esemplari maschi di razza Bionda piemontese erano e sono tuttora destinati a diventare capponi. Il tradizionale “Cappone di Morozzo” viene allevato nei comuni di Morozzo, Margarita, Castelletto Stura, Montanera, Sant’Albano Stura, Trinità, Magliano Alpi, Rocca de’ Baldi, Mondovì, Villanova Mondovì, Pianfei, Beinette e Cuneo. I capponi sono pronti per il consumo quando raggiungono almeno 220 giorni di età ed un peso medio compreso tra i 2 e i 2.7 chilogrammi. Un tempo la cresta e i bargigli venivano rimossi durante l’operazione di capponizzazione, dopo poco più di tre mesi di vita dell’animale: rappresentavano un ingrediente base della finanziera, un piatto tradizionale della cucina piemontese. Ora non vengono più asportati, nel rispetto delle normative sul benessere animale.

Non crediate però che l’allevamento di galli, galline e capponi di razza Bionda piemontese, o di polli di qualsiasi altra razza, sia una questione da poco, un percorso in discesa, tutto lastricato di rosa e fiori. Intanto, fondamentale e molto impegnativo è il mantenimento dell’igiene dei pollai. Sono poi molto numerose le malattie che possono colpire e devastare gli allevamenti avicoli: come quelle trasmesse dai parassiti dei polli, come la pseudo-peste, che comporta mancanza di appetito e sete eccessiva (in piemontese la pipìa), oppure la difterite e la coccidiosi, che possono portare all’annientamento dell’intero pollaio.

Allevare i polli (ma ciò vale anche per qualsiasi altro animale, pennuto o quadrupede) rappresenta dunque un’attività che richiede molta fatica, attenzione e dedizione. Può essere molto remunerativa, ma anche risolversi con un fallimento.

Forse, proprio da queste considerazioni, nasce un tipico modo di dire piemontese: “un travaj ëd le galin-e”, ovvero: un lavoro delle galline. L’esegesi di questa locuzione verbale può ricercarsi procedendo da due ottiche diverse. Da quella umana, e da quella dei polli.

Se ci poniamo da un punto di vista umano, allora si può supporre che quella frase faccia riferimento alla fatica, alla dedizione, che deve essere profusa da chi si dedica all’allevamento dei polli. E allora “un travaj ëd le galin-e” diventa appunto – più in generale ‒ un lavoro difficile, dall’esito rischioso e non sempre scontato: “un travaj da doi ‘ndrit”, un lavoro da due diritti, cioè con due facce, da prendere con le molle, valutandone ben ben i pro e i contro, sia prima di intraprenderlo, sia nel suo svolgimento quotidiano.

Se invece ci poniamo dal punto di vista dei polli, la prospettiva cambia del tutto, così come cambia, e di molto, il significato di questo singolare modo di dire. Le galline non hanno che da razzolare nei prati, grattando qua e là nel terreno, alla ricerca di gustosi vermicelli. Quello è – in sostanza – tutto il loro lavoro, un travaj ëd le galin-e (oltre a quello, naturalmente, di deporre un uovo quasi ogni giorno). Tutto sommato un lavoro poco faticoso per una vita forse senza crucci, ma a lungo andare monotona, nella beata inconsapevolezza (per le galline) che prima o poi finiranno in padella. Ecco perché l’espressione “un travaj ëd le galin-e” può anche essere riferita ad un lavoro svolto senza eccessivo entusiasmo o attenzione, con nonchalance, senza passione, ovvero un lavoro decisamente mal eseguito.                                                                                    

Sergio Donna

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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