Lucio della Venaria, un personaggio tra storia e leggenda
In realtà chi era costui? Una maschera di carnevale, oppure un misterioso personaggio storico davvero esistito? Sta di fatto che il “Lucio dla Venerìa” oggi ancora sopravvive in una tipica frase idiomatica piemontese
Ad un amico fanfarone o contafrottole che, con la sua fiorita affabulazione, finisce per esagerare, forse qualche anziano piemontese potrebbe ancora rispondere: “Va a contéjla al Lucio dla Venerìa”: un invito, in fondo garbato, a ridimensionare le iperboli del racconto, oppure un’esplicita esortazione ad andare a far bere la sparata a qualche altra persona, più credulona di colui che ascolta. O forse, più semplicemente, un modo arguto per far capire che non si è… né fessi, né ingenui.
Ma come è nata veramente questa espressione? Bisogna sapere che il Lucio cui si riferisce questa antica frase idiomatica piemontese era in realtà una maschera carnevalesca. Le prime documentazioni delle sue apparizioni sui palcoscenici dei teatrini dei burattini del Piemonte risalgono a metà Ottocento, ma è probabile che le sue origini, nel mondo del Teatro itinerante della Commedia dell’Arte, siano assai più antiche. Lucio non ricopriva mai il ruolo di primo protagonista nelle commediole, spesso improvvisate, dei burattinai: era una sorta di spalla, ma tuttavia, in certi contesti, diventava il vero sostenitore del dialogo, il fulcro della scena, e le sue battute scatenavano tra il pubblico scrosci di applausi ed incontenibili ilarità. Interpretava il ruolo di un personaggio ingenuo, fortemente credulone, e talvolta anche un po’ corto di cervello. Ma non mancavano i casi in cui interpretava il ruolo del finto tonto.
Ma la maschera di Lucio, anzi “del” Lucio della Venaria, a sua volta, si rifà ad un personaggio veramente esistito? C’è chi racconta che nei boschi della tenuta della Mandria, dietro la Reggia della Venaria, esistesse una statua – ora sparita – raffigurante un misterioso personaggio, che vestiva un lungo pastrano, e che indossava un vistoso copricapo a larghe tese: la scultura appoggiava su un piedistallo in pietra, che riportava un cartiglio, a dire il vero non troppo esplicito, con inciso un nome: “Lucio della Venaria”. Chi fosse quell’uomo, e se quella statua fosse davvero mai esistita, rimane un mistero.
I misteri, si sa, ispirano spesso poeti e scrittori. In uno dei più popolari romanzi del fecondo romanziere Luigi Pietracqua, intitolato “Lucio dla Venerìa” e scritto in piemontese, si narra la storia di un orfanello, di nome Sandrino, che – crescendo – scopre di essere il figlio di un brigante, di uno di quei briganti buoni e generosi, però, che rubano ai ricchi per distribuire ai poveri il bottino. Sandrino, venuto a conoscenza delle tragiche circostanze in cui era morta sua madre, decide di farsi giustizia da sé, vendicandosi di coloro che lo avevano reso orfano. Acquista un podere a Venaria; poi cambia nome, facendosi chiamare Lucio, e con il suo comportamento generoso e altruista, conquista un poco alla volta la simpatia di tutti gli abitanti del contado. Intanto “Lucio” non cessa di indagare sulle trame del passato: identificati definitivamente gli assassini di sua madre (padre Romualdo e il conte Rodolfo), li invita nella sua abitazione. Poi appicca il fuoco e fugge: i due, senza possibilità di fuga, bruciano vivi. Ma da quel giorno, di Lucio si persero per sempre le tracce. Ma ne rimase il mito e la leggenda.
Il nome del Lucio della Venaria, infatti, non è stato mai dimenticato dai piemontesi, anche grazie al successo del piacevole romanzo, con l’omonimo titolo, scritto da Luigi Pietracqua (☆ Voghera, 1832 | † Torino, 1901), uno dei maggiori e più popolari autori di teatro piemontese, eppure ultimamente un po’ dimenticato, forse perché i suoi romanzi e i testi delle sue opere sono scritti in una lingua che oggi conta sempre meno lettori. Assunto come compositore tipografo presso la Gazzetta del Popolo di Torino (1858), Pietracqua ne diventa redattore. Come giornalista, scrisse anche per La Sesia, la Gazzetta Piemontese e Il Fischietto. Fondò vari periodici in lingua italiana e in piemontese. Fu fecondo autore di commedie: nelle sue opere, spesso con finalità patriottiche e pedagogiche, Pietracqua seppe ritrarre in modo impeccabile, con realismo e ironia, sia i pregi che i difetti del popolo piemontese.
Tra le sue commedie in piemontese ricordiamo: La carità sitadina, Le sponde dël Po, Sablin a bala, Rispeta toa fomna, Un pover pàroco, ecc., che ebbero un eccezionale successo. Tra i più noti romanzi, oltre al Lucio dla Venerìa, ricordiamo Don Pipeta l’asilé. Quest’ultimo romanzo fu tradotto in italiano da Augusto Monti, su specifico invito di Italo Calvino. Altre sue opere di successo furono Lorens ël suicida, Ij mister ëd Vanchija, La famija dël soldà, ecc. ecc.
Varrebbe davvero la pena di rileggere le divertenti opere di Luigi Pietracqua. E non solo perché sono molto piacevoli. Ma anche perché ci permettono di scoprire la fluidità della lingua piemontese, le sue colorite espressioni idiomatiche e la sua peculiare espressività, ricca di sfumature e di termini affascinanti.
E i vad nen a contéjla al Lucio dla Venarìa, ma… ai lettori di Piemonte Top News: perché è pura verità.