Madame, madamin o tòte? Per i torinesi doc la differenza è fondamentale
TORINO. Tra le migliaia di torinesi recentemente assembratisi in Piazza Castello davanti al Palazzo della Regione Piemonte per segnalare a chi governa la città e il Paese il disappunto di chi – fiducioso nelle potenzialità di Torino, e in un suo futuro da protagonista in Italia e nel mondo – lamenta un profondo disagio per alcune opportunità di crescita non colte o lasciate sfuggire dai politici, spiccava un cartello che riportava questa frase: “Je suis madamin!”.
In esso, al di là dei significati politici dell’adunata di massa, è concentrata tutta l’essenza della torinesità al femminile. C’è dentro l’orgoglio – tutto torinese – di essere considerate “madamin”, ma non solo quello che nasce dalla storia e dalle tradizioni di questa città: c’è l’orgoglio più intimo, che esprime la peculiare energia che induce i suoi abitanti, partendo proprio dalle donne, a guardare sempre al futuro e al rinnovamento con fiducia e ottimismo. Ma quel cartello, oltre a darci lo spunto per comprendere il senso di un particolare stile di vita, ci dà anche l’opportunità di approfondire una questione lessicale di lingua e di cultura piemontese.
È molto pericoloso usare con sufficienza il termine “madama” e il termine “madamin”, perché la differenza è abissale, e si potrebbe incappare in una gaffe imperdonabile. È vero che la parlata piemontese, più raffinata e garbata di quella dei paesi e delle città di provincia, è da sempre stata presa a modello dell’intera koinè regionale, sia per i suoi singoli vocaboli, sia per le sue frasi idiomatiche e le sue locuzioni verbali. È però anche vero che l’uso del piemontese “torinese”, in città, è oggi assai molto meno diffuso di quanto non lo fosse fino a metà del Novecento. Ma di “madame” e “madamin” autentiche, a Torino ce ne sono ancora molte, e – a quanto pare – sono molte le donne che ne rivendicano ancora lo “status”.
E allora, facciamo chiarezza sull’autentico significato dei due termini. Intanto, non è affatto vero che madame o madamin siano solo le donne appartenenti all’alta borghesia, o addirittura all’aristocrazia della città. Assolutamente no. “Madama Chiusano”, tanto per fare un esempio, può essere benissimo anche la portinaia di un palazzo, del centro come della periferia. Voi risponderete: “Ma le portinaie non esistono più!”. E allora vi faccio un altro esempio: “Madama Chiapetto” può benissimo essere la titolare di una panetteria, o una pettinatrice del terzo millennio, o un’impiegata del Comune. Così come “Madamin Ferrero” può essere un’infermiera del Martini, o la donna delle pulizie del nostro condominio, oppure – perché no – una titolata signora che risiede alla Crocetta, al Cit Turin, o in una villetta della Collina. Analogamente, con lo stesso appellativo di “madama”, i Torinesi di ieri chiamavano le reggenti del Ducato sabaudo, come le fruttivendole abituali del Mercato di Porta Palazzo.
Questo per far capire che “madama” e “madamin” non sono titoli aristocratici, ma un modo gentile di rivolgersi a una signora (sposata o vedova), nel rispetto di un Galateo non scritto, ma condiviso, che impone (o imponeva) di far precedere il cognome (o il nome di battesimo) di una donna (quando la confidenza non era così stretta da consentire di chiamarla semplicemente per nome) da questo cortese appellativo. I due appellativi andavano (e vanno) anche molto bene usati da soli, allorché non si conosca il nome della donna con la quale si sta parlando. In questo caso, diciamo subito che, a una donna di età matura, ci si rivolge chiamandola “madama”. Ad una di età decisamente più giovane, ci si rivolge chiamandola “madamin”. Ma se si tratta di una ragazza, più giovane ancora, e in probabile età da marito, con lo stesso garbo, il galateo torinese impone di chiamarla “tòta”.
Ma torniamo a bomba. Quando si “deve” usare il termine “madama”, e quando invece “si deve” usare il termine “madamin”? Etimologicamente, il primo deriva dal latino dŏmĭnam, padrona. Il secondo deriva dal suo diminutivo, dŏmĭnicella. Analogamente, in piemontese, “madamin” è il diminutivo di “madama” e si usa nei confronti di una signora sposata che, in conseguenza del matrimonio, ha assunto il cognome del marito, purché la suocera sia ancora vivente, onde evitare confusione tra due signore che portano, di fatto, lo stesso cognome. Secondo alcuni puristi della lingua piemontese, farebbe eccezione la moglie del primogenito, che acquisirebbe il “titolo” di “madama”, indipendentemente dall’età della sposa, e dalla esistenza in vita di un’eventuale suocera. Ma, a mio modesto parere, questa tesi pare un po’ complicata.
In talune zone del Piemonte, con il termine di “madama” si identificano le cavallette, insetti alquanto fastidiosi, le cui capacità distruttive sono citate anche nei testi biblici. Un implicito, sarcastico riferimento all’ingerenza spesso pedante delle suocere nella vita di coppia? Può darsi, ma c’è da rilevare che, nella maggior parte dei casi, oggi le suocere sono diventate merce preziosa, soprattutto quando ricoprono anche il ruolo di nonna. Ed è bene tenere da conto e trattare con il massimo rispetto queste indispensabili e generose “madame”.
C’è poi un altro significato del termine “madama”. E’ un termine gergale, usato soprattutto dalla malavita del Novecento. Quella che parlava in piemontese. Come la Banda Cavallero, per intenderci. La “madama” era la Polizia. Ma forse, oggi, neppure gli stessi poliziotti si offenderebbero a sentirsi chiamare così, e probabilmente scambierebbero quel termine per un lusinghiero complimento.