Memorie piemontesi in Sardegna tra architetture sabaude e tradizione enologica
Nel 1720, in conformità ai trattati di Londra (1718) e dell’Aia, il duca di Savoia Vittorio Amedeo II acquisì il titolo di Re di Sardegna, assicurandosi il dominio sull’isola dei nuraghi, in precedenza appartenuta alla corona aragonese e spagnola (e per un settennato, dal 1713 al 1720, all’impero asburgico).
La concessione della Sardegna, motivata dall’esigenza di trovare un nuovo equilibrio tra le grandi potenze coinvolte nella Guerra di Successione Spagnola (1700-1714), ampliò in modo significativo l’estensione degli Stati governati dai Savoia, che si videro assegnato un territorio non facile da governare, ma strategico dal punto di vista militare e commerciale. Lontana dalla capitale, Torino, che al tempo, malgrado la solida tradizione militare, non disponeva d’una flotta navale adeguata, in grado di controllare uno sviluppo costiero considerevole, e divisa nella classe nobiliare tra fazione filo-spagnola e filo-austriaca, la Sardegna era caratterizzata da usi e costumi profondamente diversi da quelli sabaudo-piemontesi. Le consuetudini locali erano infatti legate a una cultura di matrice iberica, che aveva permeato la società sarda per la plurisecolare appartenenza dell’isola dapprima alla corona d’Aragona (dal 1324) e poi a quella di Spagna (1516).
Il Regnum Sardiniae et Corsicae, istituito da papa Bonifacio VIII nel 1295, era stato concesso in feudo dal pontefice a re Giacomo II d’Aragona, che non poté però prendervi possesso immediatamente, perché l’isola era suddivisa in quattro entità statuali indipendenti, i cosiddetti “Giudicati” (Torres o Logudoro, Arborea, Gallura, Calaris o Cagliari), con la presenza, a complicare il quadro, di roccaforti in mano a Pisani e Genovesi (Doria e Malaspina). Il pieno controllo della Sardegna da parte degli Aragonesi, dopo il primo scontro con l’esercito pisano nel 1324, venne raggiunto solo un secolo più tardi, mentre la Corsica non sarà mai conquistata, tanto che Ferdinando II d’Aragona il Cattolico alla fine del XV secolo rinunciò alla doppia intitolazione di re di Sardegna e Corsica.
Alle iniziali difficoltà dei funzionari sabaudi, che imputavano i forti ostacoli all’azione di governo al ribellismo dei sardi, insofferenti verso un’autorità percepita come straniera, e alla corruzione della classe dirigente, fece seguito una seconda fase, segnata dall’abile amministrazione di Giovanni Lorenzo Bogino, inviato in Sardegna nella seconda metà del Settecento, in cui si sviluppò la consapevolezza dei fattori naturali e storici che compromettevano le condizioni sociali della popolazione sarda, in particolare la piaga della malaria, che affliggeva le coste e le pianure impaludate dell’isola, e i continui attacchi predatori dei pirati barbareschi provenienti dalle basi nordafricane, che costringevano la comunità costiere a lasciare il litorale per trovare riparo nell’entroterra (emblematico è il caso di Tharros nella penisola del Sinis, importante città portuale fenicia, poi cartaginese, romana e bizantina, che attorno alla metà dell’XI secolo venne abbandonata dagli abitanti, tormentati dalle incursioni saracene, in favore del nuovo insediamento di Aristiane, l’attuale Oristano).
Come emerge dai dispacci governativi e vicereali tra Cagliari e Torino, conservati all’Archivio di Stato di Torino, il governo sabaudo procedette tra misure impopolari, lotta senza quartiere contro il banditismo, flagello su cui si focalizzò l’azione di Carlo Amedeo di San Martino d’Agliè, marchese di Rivarolo, viceré di Sardegna dal 1735 al 1738, e provvedimenti migliorativi delle condizioni dell’isola. Tale esperienza costruì nel tempo un rapporto segnato da luci e ombre, ma destinato a consolidarsi, che avvicinò gli stati al di là del mare ai territori di terraferma, lasciando in vari campi tracce significative, che ancor oggi possono essere colte viaggiando per città e contrade di Sardegna.
Emblematica del rapporto controverso, a tratti conflittuale, tra la popolazione sarda e l’amministrazione sabauda è la figura del funzionario Bogino, inviato in Sardegna da re Carlo Emanuele III in veste di responsabile della Segreteria per gli affari di Sardegna, ufficio che ricoprì dal 1759 al 1773. Al suo mandato di governo, volta a uniformare la realtà sarda alle altre province sabaude, si attribuiscono risultati significativi: per sua iniziativa vennero rifondate le Università di Sassari e di Cagliari, si riordinarono i “Monti granatici” (o frumentari) per liberare i contadini dalla piaga dell’usura e modernizzare le tecniche agricole, si incentivò l’attività mineraria, si potenziarono vecchie colture e se ne sperimentarono di nuove, come indaco, gelso, tè, riso, tabacco, cotone, olivo. Come spiegano alcuni blog di cultura sarda, malgrado le importanti riforme introdotte, la memoria del funzionario Bogino è popolarmente legata al carattere severo e intransigente dell’uomo, e di questo rimane traccia nell’antico proverbio sardo “ancu ti curra su buginu”, che letteralmente significa “ti insegua il boia” (“buginu” in sardo è il boia), ma che venne in seguito riferito proprio al funzionario sabaudo, sulla base del gioco di parole buginu/Bogino.
Tra le testimonianze più evidenti della dominazione piemontese vi sono le forme architettoniche, sia civili che religiose, concentrate specialmente in contesti urbani. Come si legge in alcuni studi dell’università di Cagliari, la maggiore disponibilità di risorse, derivata dalle riforme del Bogino, venne in parte investita dall’aristocrazia sarda nel restauro e nella costruzione ex novo di dimore gentilizie. Tali edifici rivelano l’impronta del linguaggio tardobarocco di scuola piemontese, introdotto in Sardegna dagli ingegneri e architetti militari sabaudi, inviati da Torino per occuparsi di infrastrutture (strade, ponti, arginamento degli alvei fluviali) e di fortificazioni (torri d’avvistamento, roccaforti costiere). Questi progettisti, in considerazione del divieto di assumere incarichi privati, imposto dal governo di Torino per non distrarli dalla responsabilità primaria di salvaguardare il sistema difensivo, operarono quasi sempre per la committenza pubblica e, in certi casi, per la Chiesa, progettando edifici religiosi. Per quanto riguarda la committenza privata, è invece difficile risalire a un intervento documentato di ingegneri e architetti sabaudi, sia per la già citata proibizione, sia per l’impegno assunto dal governo sabaudo di rispettare le prerogative del sistema corporativo locale: tuttavia gli studiosi ipotizzano in molti cantieri un loro intervento, almeno sotto forma di consulenza.
Lo sviluppo economico dell’isola venne promosso dai Savoia anche tramite la concessione di patenti di nobiltà: con il finanziamento di infrastrutture, l’impianto di attività produttive o la messa a dimora di un congruo numero di alberi da frutto, parecchie famiglie facoltose, non solo sarde, ma anche d’origine piemontese, ottennero titoli nobiliari facendo il loro ingresso nell’aristocrazia isolana. Nella seconda metà del Settecento la nuova nobiltà (ma anche quella di vecchia data) impiegò ingenti capitali nell’ampliamento o nella costruzione di dimore gentilizie, per evidenziare l’avvenuto riposizionamento nella società. Gli investimenti immobiliari si concentrarono nei contesti urbani dove risiedeva gran parte dei feudatari sardi – Cagliari, Sassari, Oristano – e tali interventi si ispirarono ai canoni formali e iconografici dell’architettura tardobarocca piemontese, innestandosi sul precedente repertorio tardo-gotico di ascendenza catalano-aragonese, che aveva influenzato per secoli l’architettura sarda. La tradizione gotica di matrice iberica si era infatti protratta in Sardegna sino alla metà del XVI secolo e anche oltre, ritardando l’avvento dell’estetica barocca, che si affacciò nell’isola nel corso del Seicento grazie alle curie vescovili, con il reclutamento di artigiani e artisti liguri, lombardi e ticinesi.
Il fervore edilizio privato fu uno strumento efficace nell’abituare, dal punto di vista estetico e formale, la popolazione sarda alle tradizioni sabaude. Pur vincolata dai tessuti edilizi d’impianto medievale, che non vennero alterati, la committenza privata trasse largamente ispirazione, nella costruzione e nel rifacimento dei palazzi, dalle grandi opere pubbliche realizzate per volere dell’amministrazione sabauda, in particolare a Cagliari, che costituirono la via d’ingresso principale del linguaggio tardobarocco piemontese in Sardegna.
Tra i cantieri governativi realizzati a Cagliari ne ricordiamo in particolare tre, i più significativi. Il Palazzo dell’Università, costruito su progetto dell’ingegnere piemontese Saverio Belgrano conte di Famolasco tra il 1765 e il 1770 come parte del complesso del Balice (comprendente anche il seminario tridentino e il mai realizzato teatro), venne costruito nel cuore del medievale quartiere di Castello. E’ considerato “il primo edificio civile sardo concepito secondo i criteri dell’architettura tardobarocca piemontese”, capace di influenzare, con il suo “programma iconografico di ascendenza juvarriana” e le sue analogie con le dimore gentilizie torinesi, i canonici estetici con cui furono realizzati i palazzi privati cagliaritani negli ultimi decenni del XVIII secolo. Risalenti al Medioevo e ereditati dal governo spagnolo, il Palazzo di Città, sede del potere comunale, e il Palazzo Viceregio, sede dell’autorità governativa, abitato tra il 1779 e il 1815 dalla corte sabauda esule da Torino occupata dai francesi, furono invece oggetto di imponenti opere di restyling secondo i canoni del tardobarocco piemontese, allo scopo di assicurare una dimora prestigiosa alle due istituzioni.
Nel quadro della politica sabauda volta alla modernizzazione economica della Sardegna, si annoverano inoltre i progetti di popolamento di vaste aree a bassa densità abitativa, finalizzati allo sviluppo agricolo e industriale del territorio. I tentativi, che non ebbero grande successo, vennero attuati richiamando aspiranti coloni dal Piemonte o dall’estero e invogliandoli con agevolazioni fiscali e concessioni gratuite di terreni. In quest’ottica s’inserisce la fondazione di nuovi insediamenti, tra cui la nota località turistica di Santa Teresa di Gallura.
La creazione del nuovo centro, più volte caldeggiata per la valenza commerciale e strategica del sito (“e finalmente perché terrebbe in una tal suggestione Bonifacio, che non vi potrebbe partir gondola da quel porto, senz’essere osservata per qual parte si volga…”, come si legge nel parere espresso dall’Intendente Generale nel 1738), venne ordinata nel 1808 da re Vittorio Emanuele I di Savoia, che dispose “l’erezione e la formazione di una nuova popolazione vicino alla Torre di Longon Sardo” destinata a prendere il nome di Santa Teresa da “quello della Regina mia amatissima consorte” (Maria Teresa d’Asburgo-Este). L’impianto urbanistico del paese venne tracciato dal sovrano in persona, che con le “proprie mani” disegnò la pianta del nuovo insediamento, basandosi sul tessuto viario di Torino, con le strade ad angolo retto e le ariose piazze.
Un altro progetto importante risale al 1736 quando l’allora viceré marchese di Rivarolo, che più volte aveva segnalato a re Carlo Emanuele III l’urgenza di promuovere progetti di popolamento, avviò le trattative per far trasferire in Sardegna gli abitanti d’origine ligure dell’isola di Tabarka, in prossimità delle coste tunisine. Vessati dal Bey di Tunisi e poi dagli algerini, i Tabarkini vennero accolti in parte dal re di Spagna, che concesse loro di insediarsi nell’isola ribattezzata “Nueva Tabarka”, di fronte ad Alicante, e in parte dal re di Sardegna, che riservò per gli esuli i terreni dell’isola di San Pietro, disponendo la fondazione del nuovo centro di Carloforte, dal nome del sovrano, Carlo Emanuele III (cui è dedicata una bella statua sul lungomare). Una parte dei Tabarkini, pescatori di corallo e di tonni, s’insediò poi sulla prospiciente isola di Sant’Antioco, dando origine al paese di Calasetta, sotto la supervisione dell’ingegnere piemontese Pietro Belly. Proprio qui, tra il 1773 e il 1774, giunsero alcuni coloni piemontesi che, malgrado le difficoltà incontrate (diversi di loro, per i cattivi rapporti con i Tabarkini, fecero richiesta di rimpatrio) lasciarono la loro impronta sia in alcuni aspetti del folclore locale, sia nello sviluppo della viticoltura, legata alla produzione del vino rosso Carignano del Sulcis.
Proprio nel settore enologico si rintracciano interessanti punti di contatto tra Piemonte e Sardegna. Tra i vitigni sardi a bacca nera, che annoverano varietà tradizionali come Cannonau, Carignano, Monica, Cagnulari, ne troviamo uno associato nell’immaginario collettivo al Piemonte del vino, il Nebbiolo. Il celebre vitigno è coltivato in una ristretta area della Sardegna, nell’Alta Gallura, in particolare nel piccolo centro di Luras. Ribattezzato dai sardi Nebiolo (con una sola b), dà origine al vino rosso chiamato “Nebbiolo dei Colli di Limbara”. La tradizione assegna il merito di aver introdotto in loco il vitigno al nobile piemontese Alberto Ferrero Della Marmora, generale, ma soprattutto naturalista e cartografo (fratello di Alessandro, fondatore dei Bersaglieri), che aveva intrapreso lunghi viaggi alla scoperta di usi e costumi dell’isola (realizzò una carta geografica molto precisa della Sardegna, avanzatissima per il suo tempo, e pubblicò a Parigi il “Voyage en Sardaigne”), portando con sé alcune barbatelle di Nebbiolo. Giunto a Luras giudicò che proprio qui, sulle colline granitico-argillose dell’Alta Gallura, ci fossero le condizioni ideali per la coltivazione della varietà. Oggi i circa 50 ettari coltivati con la prestigiosa uva d’origine piemontese danno origine a una produzione di nicchia, ma molto apprezzata, di cui i Luresi vanno fieri, tanto da aver creato la “Confraternita del Nebiolo” per la tutela del vitigno.
Ricordiamo infine, a conclusione di questa incompleta panoramica, l’azienda vitivinicola Sella&Mosca, proprietaria del più vasto vigneto a corpo unico d’Europa, con una tenuta estesa per 650 ettari di cui oltre 500 coltivati a vite. Come riporta il sito aziendale, i fondatori di questa importante realtà, con sede ad Alghero, furono due “avventurosi piemontesi”, l’ingegnere Erminio Sella, nipote di Quintino, il celebre Ministro delle Finanze, e l’avvocato Edgardo Mosca, che nel 1899, “guardando con occhi nuovi la natura incolta”, diedero l’avvio a un’imponente opera di bonifica liberando i suoli dalla roccia e preparandoli ad accogliere la bellezza delle viti.