Modi di dire piemontesi: na figura da cicolaté
Fu Carlo Felice di Savoia a coniare questa espressione, dando sfogo alla propria stizza nei confronti di un cioccolataio che sfoggiava la propria ricchezza girando per le strade di Torino su una carrozza trainata da un tiro a quattro, talmente lussuosa da rivaleggiare con quella del re
TORINO. Alberto Viriglio (Torino, 1852 – ivi 1913), uno dei più arguti poeti piemontesi e studioso appassionato della storia delle tradizioni regionali, nel suo libro Voci e cose del vecchio Piemonte attribuisce a Carlo Felice di Savoia (che fu re di Sardegna dal 1821 al 1831) un tipico modo di dire, ancor oggi usatissimo dai Piemontesi: «Na figura da cicolaté». Questa locuzione si usa quando vogliamo riferirci ad una magra figura, una figura meschina, dai risvolti spesso comici, se non addirittura grotteschi, di cui siamo rimasti vittime o siamo stati protagonisti, o anche quando vogliamo descrivere un atteggiamento sfacciato o impertinente.
Sembra che l’origine di questo modo di dire risalga ad un moto di stizza cui si abbandonò il sovrano, nonostante il suo proverbiale self-control e il suo regale à plomb, allorché venne a sapere che un noto mastro cioccolataio torinese, le cui virtù nella lavorazione del cacao gli avevano consentito un rapido arricchimento, da qualche tempo percorreva la città a bordo di una carrozza trainata da quattro cavalli. La vettura, costruita da un abile mastro carradore, era particolarmente sfarzosa, e il popolo la scambiava con quella del re. Carlo Felice si sentì ferito nel suo orgoglio di re di Sardegna, Cipro e Gerusalemme, e contrariato da tanto ardire. Abbandonando l’etichetta di corte, avrebbe allora esclamato, con un gesto di evidente stizza e intemperanza: «I veuj nen fé na figura da cicolaté!», e avrebbe di conseguenza imposto all’ambizioso cioccolataio, che aveva ostentato così platealmente la propria ricchezza, girando la città a bordo di una carrozza trainata da una quadriglia, di limitarsi ad un più modesto tiro a due.
A dispetto del nome, Carlo Felice – forse – non era del tutto “felice” , ipotesi tutt’altro che azzardata se leggiamo la sua biografia. Prima di lui si erano succeduti al trono i suoi due fratelli maggiori, Carlo Emanuele IV (che abdicò nel 1802, distrutto dal dolore per la morte delle moglie Maria Clotilde di Francia, in seguito ad un attacco di tifo) e Vittorio Emanuele I (che a sua volta abdicò in suo favore nel 1821, pur di non cedere alle pressanti rivendicazioni liberali del popolo, che miravano ad ottenere una moderna Costituzione, sul modello spagnolo). Così, Carlo Felice si ritrovò a sedere su un trono a cui non avrebbe mai pensato di salire. E suo malgrado, non ebbe figli, proprio come suo fratello Carlo Emanuele. Vittorio Emanuele I, l’altro fratello, dal canto suo, non aveva generato che figlie femmine, che non potevano vantare alcun diritto di successione. Carlo Felice finì per ritrovarsi ad essere l’ultimo autentico rampollo dell’albero genealogico del Casato. Alla sua morte, infatti, gli successe Carlo Alberto, la cui candidatura era sostenuta dall’Austria, ma che, peraltro, anche secondo le norme ereditarie, costituiva il parente più prossimo e titolato a succedergli sul trono sabaudo, pur appartenendo a un ramo cadetto di Casa Savoia, quello dei Savoia-Carignano. Il passaggio del trono al principe Carlo Alberto di Carignano, il più prossimo nella linea successoria e legittimo pretendente, si rivelò infatti una scelta obbligata.
Ci piace tuttavia pensare che Carlo Felice fosse molto ghiotto di cioccolato e che, nella degustazione di una calda tazza di cioccolato liquido, potesse trovare qualche momento di felicità. Chissà: forse, prima di firmare l’editto con cui voleva impedire ai borghesi l’uso di carrozze con tiro a quattro, si era recato nell’atelier di quel cioccolataio impertinente, per tastare di persona le sue prelibatezze, tanto decantate dal popolo. E vogliamo immaginare che il re – rapito dal gusto inimitabile del suo cioccolato – avesse deciso di non firmare l’editto, e che si fosse limitato a far praticare al cioccolataio una semplice tiratina d’orecchi.
Sergio Donna