Pillole di storia di un quartiere operaio: Borgo San Paolo e il suo nucleo originario
Un articolo di Sergio Donna dedicato agli albori della storia di Borgo San Paolo, vivace quartiere torinese di origine operaia, protagonista nel Novecento della storia politica, industriale e sociale del nostro Paese
Voglio ricordare come il più antico agglomerato di case rurali attorno al quale si sviluppò il primordiale nucleo di Borgo San Paolo sia stata la Borgata di San Bernardino. E lo faccio prendendo spunto da una deliziosa e romantica descrizione che di questo piccolo borgo suburbano di fine Ottocento De Amicis ci ha lasciato in uno dei suoi più deliziosi romanzi brevi. Questo l’incipit de “La maestrina degli operai”, sorprendente e scorrevole racconto realista di Edmondo De Amicis, dal tragico finale, pubblicato nel 1892, ed ambientato in un suburbio di Torino, che molti indizi inducono a identificare col primo nucleo abitato di Borgo San Paolo: «Una delle più belle scuole suburbane di Torino, che son tutte nuove e di bell’aspetto, è quella del piccolo sobborgo di San***, posto un miglio fuor di porta e abitato in gran parte da contadini e da operai di due grandi fabbriche…, che lo riempiono di rumore e lo coprono di fumo. Il sobborgo è formato da una sola strada diritta, fiancheggiata di piccole case e d’orticelli, dalla quale si spicca un largo viale, che corre nella campagna aperta: in fondo a questo v’è la chiesa, solitaria, e dall’un dei lati, sul confine d’un campo, la scuola…».
È molto probabile che la strada citata dallo scrittore, in realtà, non fosse che l’Antica Strada di San Paolo, che si dipartiva all’altezza della barriera daziaria, a ridosso delle Officine Grandi Riparazioni Ferroviarie, e posta sulla Via Circonvallazione all’altezza del Viale Principi d’Acaja (poi Via Pier Carlo Boggio, e più recentemente Via Paolo Borsellino). La Strada di San Paolo non era che una strada rurale in terra battuta, sulla quale affondavano, con marcati solchi (roere), le ruote dei carri che la percorrevano. In effetti, come la definiva De Amicis, quella via era la “strada maestra”, anzi l’unica strada veramente importante del sobborgo, poiché l’altro braccio del bivio da cui essa prendeva origine, e il cui vertice coincideva con l’apertura della barriera daziaria, non costituiva che un tracciato poco più importante di una strada secondaria vicinale: l’Antica Strada del Monginevro.
Quasi certamente, quella chiesa era quella di San Bernardino, che in effetti, nel 1891, proprio mentre De Amicis è alle prese con la stesura delle pagine del romanzo, era stata da poco ultimata. A lato della chiesa, il chiostro, qualche costruzione rurale, e poco più in là, un piccolo edificio scolastico: nei suoi pressi, nei tardi anni Dieci del Novecento, sarebbe stata poi edificata l’imponente Scuola Elementare Santorre di Santarosa, inaugurata nel 1921. Intorno, sparse, numerose cascine, alcune architettonicamente notevoli, vere e proprie ville o palazzine, attorno alle quali facevano quadrato le ben più spartane e rustiche abitazioni dei mezzadri e degli addetti alla mungitura delle bestie, e le stalle. Molte altre non erano che dei semplici cascinali attrezzati per la conduzione dell’attività agricola e per accogliere le stalle per le vacche e gli ovili per le pecore, i fienili, gli attrezzi, i letamai. Erano dotate di ampie aie in cui scorrazzavano oche, anatre, faraone, tacchini, galline e pulcini, tra l’abbaiare vivace dei cani da pastore. Avevano cioè la duplice funzione di base per la raccolta dei prodotti agricoli e di riparo per il bestiame, nonché di residenza per le famiglie contadine, che vi facevano ritorno a sera dopo le lunghe giornate di lavoro all’aperto, per la cena e il breve riposo notturno. Il pranzo, frugale, veniva spesso consumato in campagna, tranne che nei giorni di festa, ed era sempre accompagnato da un bicchiere di buon vino, custodito nella fiasca (doja) e tenuto al fresco in qualche bialera. Le occasioni di svago erano davvero rare: i contadini, si sa, non conoscono mai riposo, nemmeno nelle giornate festive.
Ma torniamo a De Amicis. È probabile che quel viale, citato dal Nostro, che si dipanava nella campagna solcata dalle bialere, altro non fosse che un primordiale tracciato di quello che poi sarebbe diventato l’attuale Corso Racconigi. In ogni caso, la perfetta descrizione dello scenario di quella borgata e la precisa collocazione temporale del romanzo deamicisiano calzano perfettamente con il clima sociale che negli ultimi lustri dell’Ottocento caratterizzava il nascente Borgo San Paolo: un contesto a metà strada tra la campagna e la città, abitato, non a caso, sia da operai (insediati in case di nuova costruzione, solitamente ad uno, due piani al massimo, e con annesso un piccolo orto), sia da contadini (che invece continuano a vivere nei rustici del contado). I primi, sempre più numerosi, erano attratti dalle malìe del progresso tecnologico industriale e dalle chimere di un impiego che, per quanto faticoso, e mal retribuito, poteva garantire un reddito fisso, sia pur nel rimpianto dello stile di vita agreste. Più spesso, è la miseria che li spinge verso la fabbrica, che può finalmente offrire una concreta e imperdibile opportunità di lavoro. Nella maggior parte dei casi, si tratta di ex contadini, che hanno giocoforza rinunciato a coltivare le vicine campagne per la grave crisi congiunturale dei prezzi dei prodotti agricoli. La concorrenza di altri mercati ortofrutticoli, più decentrati o posizionati in altre regioni, ma più competitivi, si fa ormai sentire anche nelle campagne attorno a Torino: sono le nuove linee ferroviarie (verso Milano e Genova, e verso il Frejus) a rendere di fatto più abbordabili i prodotti agroalimentari di regioni anche molto lontane, le cui aziende agricole si avvalgono di una manodopera a costi orari molto più limitati.
Ma già fanno capolino le prime comunità di famiglie operaie provenienti dal Veneto e dal Meridione, che si insediano a Torino, al di là delle barriere daziarie, dove le pigioni sono più abbordabili e le abitazioni sono prossime ai nuovi posti di lavoro in fabbrica. Dal canto loro, quegli agricoltori che non osano abbandonare i campi e le asprezze dell’attività rurale, tendono comunque a stringere sempre più stretti rapporti con la vicina città, senza perdere l’opportunità di condurre la consueta vita lavorativa all’aria aperta. Per gli operai, posizionarsi a ridosso della città significava trovare un’ubicazione più prossima alla fabbrica e quindi più comoda. Per gli agricoltori, la prossimità al centro urbano rappresentava ancora un’opportunità quale canale di sbocco di certi prodotti agricoli, soprattutto se di eccellenza, che la concorrenza non minacciava, ma offriva loro soprattutto, almeno nei periodi di tregua dalle semine e dai raccolti, e dagli orari di mungitura, la ghiotta possibilità di fornire anche in città, ai residenti fuori e dentro la cinta daziaria, quei loro preziosi e tipici servizi artigianali, patrimonio quasi esclusivo della tradizione economica contadina. Queste loro attività erano infatti molto specialistiche, e quindi molto apprezzate, e costituivano una chance per arrotondare i redditi del prevalente lavoro di coltivatori diretti o di mezzadri (gli uomini, ad esempio, potevano proporsi come maniscalchi, magnin, spazzacamini, falegnami, fornitori di legna da ardere, di pani di ghiaccio, ecc; le donne, invece, potevano offrirsi, almeno in certi periodi dell’anno agrario, come lavandaie, balie, rammendatrici, filatrici di lana e di seta, ecc). Insomma, un’economia di scambio che forniva ad entrambe le parti coinvolte vantaggi evidenti.