Ponti del diavolo, le stupefacenti opere di pietra che sopravvivono al logorio del tempo e della storia
La tragedia del crollo del viadotto sul Polcévera ha sollevato un’ondata di sgomento e commozione in Italia e nel mondo, per il cospicuo numero di vittime e veicoli coinvolti. Ma ha anche scatenato un mare di indignazioni e di preoccupazioni da parte di tutti noi, che ora ci interroghiamo sull’attuale stato di sicurezza dei ponti e dei cavalcavia e dello stato di manutenzione dell’intera rete stradale e autostradale del Paese.
Com’è noto, la maggior parte di queste infrastrutture, spesso tecnicamente ardite, anche se non sempre esteticamente apprezzabili, ha ormai un’età che si aggira tra i cinquanta e sessant’anni, essendo state soprattutto progettate e realizzate tra gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta del Novecento, con l’impiego di ingenti capitali pubblici e privati, miranti a dotare il paese di un’adeguata rete autostradale. Il tutto, sull’euforia del vivace miracolo economico prima, e poi, sulla spinta dell’esponenziale sviluppo dei trasporti su gomma (bisarche e autosnodati) sulle nostre strade statali e sulle nostre autostrade, ma anche sull’onda della continua crescita dei flussi turistici di vetture private e di pullman con targa italiana e straniera che si riversavano sulla nostra rete viaria.
La vetustà di molti viadotti, ponti e cavalcavia sulla rete stradale, autostradale e ferroviaria italiana impone di monitorarne, con sistematici e ancor più rigidi piani periodici di verifica, l’efficienza e la tenuta dei pilastri in acciaio o in cemento, dell’integrità degli stralli e del ferro affogato nel calcestruzzo. Ma nel nostro Paese, oltre ai più moderni viadotti e cavalcavia in cemento, convivono infrastrutture e ponti ben più antichi, realizzati in pietra, in muratura, in ferro e persino in legno, con criteri costruttivi ormai ritenuti arcaici e caduti in disuso. E la domanda sorge spontanea. Qual è la condizione di sicurezza e di tenuta di queste opere (ponti su fiumi e torrenti, ponti ferroviari, trafori, viadotti, cavalcavia, tornanti, ecc.) realizzate nel primo Novecento, nell’Ottocento, in epoca napoleonica, nell’era medievale, o addirittura in epoca romana?
In effetti, l’Italia – così come l’Europa intera, il Nord Africa, e persino il Medio Oriente (dalla Francia alla Germania, dalla Turchia alla Spagna, dal Libano alla Croazia, da Israele alla Tunisia, dalla Siria all’Algeria) – pullula di antichi ponti romani, testimonianze di pietra o mattoni che i grandi architetti dell’Impero avevano realizzato ai quattro angoli del mondo allora conosciuto, e che ancora possiamo ammirare – in molti casi – nel loro splendore e nella loro magnificenza originaria: opere solide e durature, oltre che di straordinaria bellezza, erette con accuratezza e sapienza.
Di questi ponti, arditi ed eleganti, leggeri e possenti al tempo stesso, ce ne sono moltissimi anche nel nostro Piemonte e in Valle d’Aosta, tutti ancora solennemente in piedi e percorribili: è infatti proprio nelle terre di confine, e laddove le asperità del terreno e delle rocce si fanno più impervie, tra gole, orridi e forre, che gli antichi Romani diedero sfogo al loro estro creativo, realizzando meraviglie architettoniche che ancora ci incantano. Visitarli e percorrerli, ammirando il paesaggio maestoso e spesso vertiginoso che si apre dal culmine di questi ponti, ci dà un’emozione straordinaria, che vale sicuramente il viaggio e qualche passo in più tra la natura, per scoprirli e fotografarli. Sono tanti, ma qui ne segnaleremo solo qualcuno, tra i più noti.
Uno di questi, è il Ponte-acquedotto di Bagnasco (sul Tanaro, nel Basso Piemonte), detto “Ponte Romano” perché vanta origini romane, anche se il suo aspetto attuale è frutto di rifacimenti avvenuti in epoca medievale, cinquecentesca e napoleonica. Attraverso questo ponte, passava l’antica via che collegava la Liguria alla Val Tanaro, scavalcando le Alpi Marittime.
Ricche di ponti romani (o d’epoca medievale) ad arco o a “schiena d’asino” (spesso detti “Ponti del Diavolo” per la loro scenografica arditezza, talmente sfrontata da apparire un’opera diabolica) sono pure le altre Valli piemontesi, dalle Cozie alle Graie. Imperdibili, ad esempio a Viù, sono il Ponte dei Mulini (è sulla Stura, e collega il borgo storico di Viù con la zona detta dei Mulin Ninin, così detta perché lì esistevano antiche macine per cereali, e grange attrezzate per la torchiatura delle noci e della canapa) ed il Ponte della Torretta, entrambi perfettamente conservati. Quest’ultimo, anch’esso in pietra e a “schiena d’asino”, è però più recente: è stato costruito nel Settecento, sul Rio Richiaglio (in piemontese Ri Ciàir, che significa Rio Chiaro). Nelle vicinanze si trova il masso erratico detto “la Torretta”, oggi usato come palestra di roccia.
D’epoca medievale, e parimenti bellissimo, è un altro ponte eretto sul torrente Stura all’altezza di Forno di Lemie. Risale al Millequattrocento. Il Ponte di Forno di Lemie è anche chiamato “Ponte dei Goffi”, perché fu costruito a spese dalla famiglia Goffi, titolare della concessione per lo sfruttamento delle locali miniere di ferro e rame; la borgata di Forno ha assunto questo nome proprio per la presenza in loco di antichi forni per la fusione dei metalli, estratti dalle miniere delle montagne circostanti. Il ponte è in pietra, ed è formato da due arcate disuguali a “schiena d’asino”. Al centro dell’arcata maggiore, è stata edificata un’edicola dedicata a Maria Vergine. Pare che l’edicola sia stata costruita in quel preciso punto proprio per appesantire l’arcata al centro, ed aumentare così la spinta sui due blocchi laterali.
In Valle d’Aosta, altra terra di valichi e di transiti obbligati tra i due versanti alpini, ricordiamo il Ponte Romano di Pont St. Martin (la ridente cittadina prende nome proprio dal suo celebre ponte), ed il Ponte Romano di Aosta. Detto anche “Ponte di pietra” (Pont de pierre) è uno dei più ben conservati monumenti romani della città, ed è situato poco distante dal celebre Arco d’Augusto. Fu eretto ai tempi della fondazione di Augusta Praetoria, per consentire l’attraversamento del torrente Buthier.
I ponti romani e medievali erano stati concepiti soprattutto per i transiti pedonali e per farci passare qualche carro trainato da asini e muli, ma su di essi erano sfilati interi eserciti con tutte le pesanti macchine da guerra al seguito. Avevano dunque una considerevole resistenza, e ce lo dimostra il fatto che molti sono sopravvissuti al logorio dei tempi e della storia, e si sono conservati intatti (o quasi) fino ai giorni nostri.
Vista la durata straordinaria di certe costruzioni antiche, c’è allora da chiedersi se dovremmo tornare alle costruzioni in pietra e muratura, con calce e malta, in acciaio o addirittura alle strutture di legno. Personalmente, non lo credo, ma questa è una questione tecnica nella quale non sono in grado di addentrarmi. Dalle tragedie si devono però trarre spunti e insegnamenti, affinché certi eventi catastrofici non abbiano più a ripetersi. Nella fattispecie, i progettisti, i tecnici e i manutentori del terzo millennio (che dispongono di mezzi e tecnologie ben più evolute di quelle degli architetti dell’antichità) devono garantire agli utenti della rete viaria e ferroviaria (turisti, trasportatori, pendolari, ecc.) la massima sicurezza. E ciò dev’essere realizzato con un’accorta e consapevole prevenzione, per scongiurare scrupolosamente ogni pericolo, monitorando in tempo reale lo stato di salute di ogni metro delle nostre ferrovie, strade e autostrade, dalle gallerie ai viadotti, dai ponti agli svincoli, a tutela preventiva delle nostre vite, onde evitare di affidarle – quando ormai è troppo tardi – all’estremo eroico sacrificio dei volontari della Protezione Civile, dei Vigili del Fuoco e della Croce Rossa.
Sergio Donna