Preit di Canosio, un villaggio alpino recuperato in Valle Maira
Si scrive sovente di spopolamento montano, di realtà alpine che sopravvivono con fatica tra declino demografico, ostacoli burocratici e difficoltà economiche, ma talvolta, per fortuna, ci si imbatte in piccole comunità che contraddicono questa visione: è il caso della borgata Preit, frazione di Canosio in valle Maira, dove le linde architetture alpine sono perfettamente preservate, oggetto di un’attenta opera di salvaguardia, e le tradizioni culturali vengono custodite con passione dagli abitanti.
Il villaggio di Preit è costituito da una manciata di case in pietra disposte ordinatamente sul fianco della montagna lungo la strada che sale all’altopiano della Gardetta, un ampio pianoro dominato dalla vertiginosa guglia di Rocca La Meja. Il comune di Canosio, di cui fa parte l’abitato di Preit, conobbe un periodo di particolare prosperità nel XV secolo, al tempo del marchesato di Saluzzo, quando, come risulta dai documenti, era la località valligiana, insieme con Marmora, che versava la quota più alta di tasse all’erario marchionale. La floridità economica raggiunta da questi territori tra tardo Medioevo e prima età moderna, dovuta a vari fattori, dalla vivacità degli scambi commerciali tra i due versanti ai proventi del traffico legato al trasporto del sale dalle coste provenzali, senza trascurare il ciclo climatico favorevole, è attestata dalla ricchezza delle architetture sia civili che religiose risalenti al XV/XVI secolo, di cui rimangono ragguardevoli testimonianze.
Negli edifici di Preit si notano caratteristiche comuni agli altri abitati della valle, con alcune peculiarità che li contraddistinguono. L’uso della pietra prevale su quello del legno, utilizzato in particolare per le travature a sostegno del tetto: la copertura delle case è qui realizzata con le lose, appoggiate all’orditura lignea, che presenta pendenza limitata e struttura abbastanza robusta da sopportare il peso della pietra e il sovraccarico della neve. Mentre nelle valli Maira e Varaita domina la pietra da losa, in valle Vermenagna, più a sud, si trovano ancora rari esempi di copertura in paglia, riservata in genere ai fienili, e, soprattutto in valle Stura, sono frequenti i tetti in scandole, tavelle in legno di larice ricavate a spacco e oggi a segagione.
Nelle abitazioni più antiche risultano assenti le scale, più frequenti a partire dal Settecento: l’ingresso agli ambienti interni avveniva in questi casi sfruttando la pendenza del terreno, cosicché l’accesso al piano inferiore si trova sul lato a valle, quello al piano intermedio sul fianco della casa e l’entrata per il fienile sul lato a monte. Diffusa nelle borgate del comune di Canosio è la tipologia della casa-villaggio, che prevede il raggruppamento di diverse unità abitative e degli spazi adibiti a stalla e fienile sotto un unico grande tetto, attorno a un nucleo centrale e a elementi di raccordo, come i passaggi coperti. Nel villaggio di Preit si riscontra una notevole presenza di colonne rotonde in pietra, con funzione statica, di sostegno del tetto, ma con valenze anche estetiche, e di elementi capaci di conferire signorilità all’abitazione, come le facciate a vela, in cui il muro di frontespizio è più alto del tetto, e le belle finestre a monofora e bifora, risalenti al tardo Medioevo.
Fra le manifestazioni del vivere comunitario, che nel villaggio montano si rende tangibile nelle strutture d’uso comune quali fontane, forni e mulini, occupano un posto importante le feste popolari. A Preit assume rilevanza, per i significati storici e culturali, la Bahìo di San Laurèns al Prèit o Badia di San Lorenzo, legata alle celebrazioni del santo patrono in agosto. Di antica derivazione pagana, legata a riti di fecondità e forme di magismo contadino, la festa appartiene al novero delle cosiddette Bahìo o Baìo, vocabolo provenzale alpino traducibile come “badia”, con riferimento alle congregazioni popolari, formate dai giovani del villaggio, cui era un tempo demandata la gestione dei momenti di festa e di socializzazione, derivate dalle “Compagnie o Abbadie dei Folli” di origine medievale. Sul sostrato arcaico di queste feste tradizionali, ancora diffuse in queste vallate del Piemonte occidentale, si innestarono con il tempo significati nuovi, connessi sia all’avvento del Cristianesimo, che conservò le ritualità esteriori, immergendole però nella dimensione spirituale della fede in Cristo, sia ad avvenimenti cruciali per la storia delle comunità locali, che segnarono in profondità l’immaginario collettivo, come la cacciata dei Saraceni (Sampeyre) o le violenze anti-cattoliche degli Ugonotti (Preit di Canosio).
I Saraceni (indicati spesso nelle cronache come gens saracinorum o come “mori”), etnonimo forse derivante dal greco sarakenos, riferito ai beduini d’Arabia, o dal nome d’una tribù semitica del Sinai citata da Tolomeo, erano bande di predoni arabi, mescolate a gruppi di musulmani provenienti da Nordafrica, Spagna, Sicilia, e a ribelli di varia estrazione, che imperversarono in Occidente con razzie e saccheggi dalla fine del IX secolo, utilizzando come base l’insediamento di La Garde-Freinet (Fraxinetum saracinorum) sul golfo di Saint-Tropez e dilagando da qui verso il Piemonte, la Liguria e l’arco alpino occidentale sino alla Svizzera. Le incursioni saracene, che seminarono morte e distruzione approfittando della disgregazione dell’impero carolingio, ebbero termine verso la fine del X secolo grazie all’azione di principi e feudatari, come il marchese di Torino Arduino il Glabro, che riuscirono a sottometterli, ristabilendo l’ordine.
La presenza dei Saraceni, che non fu mai stabilmente organizzata sul territorio, lasciò una flebile impronta nella toponomastica e in alcuni vocaboli (ad esempio il piemontese “cossa” per zucca deriva dall’arabo kusa), ma l’eco delle loro terrorizzanti imprese rimase impresso soprattutto nel campo della leggenda e del folclore, perpetuandosi in alcune tipologie di festeggiamenti che, attraverso la ritualizzazione della cacciata del Saraceno, tramandano la memoria di quel flagello e la gioia per la liberazione.
L’impronta guerresca della Baìo traspare non tanto dai variopinti costumi, che non si richiamano nemmeno al periodo considerato, bensì a un’epoca successiva, quanto dalle scene rappresentate e dalla tipizzazione dei personaggi, sempre impersonati da maschi anche per le parti femminili, come in certi riti stagionali balcanici e slavi. Nel caso di Sampeyre, in valle Varaita, l’aspetto prevalente nelle quattro Baìo che oggi si celebrano nel mese di febbraio, con cadenza quinquennale, è quello legato alla rievocazione della cacciata dei Saraceni. Vi compaiono, tra i tanti personaggi, i Cavalìe, la milizia a cavallo che respinge gli invasori, le Serazìne, che agitano fazzoletti per segnalare i movimenti dei Saraceni, i Sapeur, zappatori, che, dotati di ascia, liberano le strade dalle barriere lasciate dai Saraceni in fuga, gli Escarlinìe, soldati di fanteria con le mazze addobbate di campanelli. Poi vi sono gli Alum (“lampada” nella parlata locale) i capi militari, tra cui l’Abà Majour, incaricati di presiedere i festeggiamenti e dirigere la Baìo. Il nemico sconfitto è rappresentato dal Turc, il Saraceno in catene, mentre il prigioniero liberato s’incarna nella figura del Moru, moro, e del Grec, greco, forse a evocare, in una complessa stratificazione di significati storici, i legami tra dinastie piemontesi come gli Acaia e i Paleologi del Monferrato con l’Oriente bizantino.
Diversa è l’evoluzione della Baìo di Preit, detta Badia di San Lorenzo perché il Cristianesimo la legò ai festeggiamenti del santo patrono. In questo caso l’evento storico di cui si fa memoria non è la cacciata del Saraceno, bensì la difesa della comunità dagli Ugonotti, protestanti che s’erano insediati nelle valli saluzzesi nel corso del XVI secolo, quando, con la morte dell’ultimo marchese, Gabriele, avvenuta nel 1548, il territorio marchionale divenne un protettorato francese. La situazione si aggravò con l’ascesa alla carica di governatore del maresciallo di Bellegarde, le cui guarnigioni, composte in prevalenza da ugonotti, detti spregiativamente “bigarati”, s’abbandonarono a soprusi e violenze contro i cattolici. Sarà poi l’annessione sabauda, voluta dal duca Carlo Emanuele I e riconosciuta nel 1601 con il trattato di Lione, a porre in salvo l’identità cattolica del marchesato.
Nelle celebrazioni della Badia di Preit si riflette dunque il ricordo della milizia armata che la comunità locale aveva istituito per la protezione di clero e fedeli, garantendo il tranquillo svolgimento delle processioni religiose e in particolare della festa patronale. La tradizione della Badia, interrotta nei primi anni Cinquanta per le problematiche legate allo spopolamento, è assurta a nuova vita in tempi recenti, con gli adattamenti richiesti dalle circostanze e tenendo conto delle modifiche intervenute nel tempo. I provvedimenti del periodo napoleonico, con la proibizione all’uso di armi da guerra, comportarono ad esempio la rinuncia alle alabarde, armi in asta da punta e da taglio in dotazione alla milizia, e l’adozione di un nuovo codice di abbigliamento, il cui elemento principale è la feluca, che è anche il segno distintivo degli Abbà, i “generali”. La feluca è provvista di pennacchio nero nel caso dell’Abbà vecchio e di pennacchio bianco per quello di nuova nomina, che viene cercato per le vie del paese per essere poi acclamato dagli abitanti. Il ruolo di Abbà è motivo di orgoglio per il prescelto, ma un tempo implicava anche sacrifici economici di non scarsa rilevanza, perché le spese per l’organizzazione della festa gravavano almeno in parte su di lui.
L’esperienza positiva di Preit ci insegna che la salvaguardia della civiltà alpina esige certamente la tutela del paesaggio, la preservazione dell’ambiente naturale e il recupero delle architetture tradizionali, ma non può prescindere dal mantenimento in vita di quel ricco patrimonio di folclore, tradizioni e feste popolari che ne costituiscono l’anima.
Il servizio fotografico è di Roberto Beltramo