Curiosità

Quelle piazze di Torino che anticamente erano adibite a mercati monotematici…

Tra queste, ricordiamo la Piazza delle Erbe, la Piazza del Grano, la Piazza del Vino e quella del Burro, che è stata inglobata nell’isolato del Palazzo di Città, mantenendo però la storica denominazione di “Corte del Burro”

TORINO. Nei secoli passati, i tradizionali mercati del capoluogo sabaudo si caratterizzavano per essere spesso specializzati in uno preciso genere merceologico. Ciò comportava che specifiche aree urbane (in particolar modo le piazze, sia pur di diversa grandezza) accogliessero ambulanti, rivenditori, coltivatori e produttori di articoli omogenei.

Una forma di specializzazione che peraltro trovava un coerente e analogo criterio anche per il commercio fisso: a Torino esistevano infatti contrade che accoglievano artigiani e commercianti specializzati nella produzione e/o nella vendita di particolari prodotti (al punto che anche le strade ne assumevano il nome, come la Via dei Pellicciai o la Via degli Stipettai, o la Contrada del Fieno, ad esempio). Un po’ alla volta, una contrada si era specializzata nella produzione di carrozze; un’altra nella realizzazione di porte e portoni per i palazzi della città; in un’altra si concentravano i minusieri e i mobilieri; in altre contrade ancora, pullulavano i laboratori di sartoria, e via dicendo. Una traccia di questa divisione spontanea delle attività per categorie merceologiche omogenee persiste ancora qua e là in città: in Via Saluzzo e in Via Maria Vittoria, ad esempio, sono ancora numerose le botteghe degli antiquari e degli indoratori di cornici; in Via Garibaldi, anche per la vicinanza al Municipio, fino a qualche anno fa pullulavano i negozi di abiti da sposa. La Contrada dei Fiori, l’attuale Via Belfiore, fu aperta nel 1853: venne così chiamata perché vi aveva sede lo Stabilimento Agrario Botanico Burdin. A Torino esisteva anche una Contrada dei Fornelletti (ora Via Franco Bonelli), così chiamata per la presenza di alcuni piccoli forni pubblici a disposizione dei cittadini. La Contrada delle Fragole (un tratto dell’attuale Via Conte Verde), aveva preso il nome dal caratteristico Mercato delle Fragole che vi si teneva. La Contrada della Fucina (oggi Via Giovanni Battista La Salle, in Borgo Dora) prendeva invece il nome dalle numerose bòite accolte in questo angolo della città, in cui si lavorava il ferro e si producevano armi da fuoco.

Ma torniamo ai mercati. Alcune piazze torinesi hanno a lungo accolto spazi mercatali (come la stessa aulica Piazza San Carlo); altre – come l’area su cui sbocca Via Milano (Porta Palazzo) – ancora li accolgono ai giorni nostri.

Un mercato popolare in Piazza San Carlo. Dipinto conservato alla GAM, opera di
Giovanni Michele Graneri (1752)

L’attuale Piazza Palazzo di Città, era chiamata Piazza delle Erbe, perché qui – già in epoca medievale – si teneva il principale mercato ortofrutticolo urbano. È probabile che questo spazio fosse lo stesso in cui, in epoca più remota, sorgeva l’antico Foro Romano di Augusta Taurinorum.

A Torino esisteva poi una Piazza del Grano, o Piazza San Silvestro, che corrispondeva all’incirca all’area dell’attuale Piazzetta del Corpus Domini, nella quale si vendevano farine e granaglie.

Ancor oggi, lungo la Via Palazzo di Città e nella stessa piazza antistante il Municipio, vengono accolti periodicamente vivaci mercati domenicali a cura della Coldiretti e di Campagna Amica, un retaggio di una vocazione commerciale di questo angolo della città che risale a tempi remoti.

Piazza Carlina (ovvero piazza Carlo Emanuele II) fu tracciata all’epoca del secondo ampliamento urbanistico della città, quando si pensò di espandere la piccola capitale in direzione della collina  (1673): la piazza doveva rappresentare un’aulica area barocca a disposizione dei cittadini, ma venne presto e più prosaicamente adibita a Mercato del Vino.

Così scriveva in proposito Goffredo Casalis (che in questo stesso passo ci ricorda pure che la Piazza della Cittadella era adibita a Mercato della Legna): «In quell’epoca vi si costruirono quattro tettoie, sotto alle quali dovean tenersi i mercati, e particolarmente quello del vino, che ancor vi si fa di presente, e prima facevasi in sulla Piazza della Cittadella, or denominata della Legna. Queste tettoie sono un vero ingombro alla Piazza Carlina, la quale senza esse apparirebbe assai bella, essendo attorniata da eleganti palazzi.»

La Piazza del Burro si apriva invece di fronte al sagrato della scomparsa Chiesa di San Benigno: ora è un cortile inglobato nell’isolato del Palazzo Civico, che ancora mantiene la denominazione di Cort dël bur, Cortile del Burro. Qui si commerciava il burro prodotto prevalentemente dai margari delle Valli di Susa, delle Valli di Lanzo e dall’Alto Canavese. Un burro d’alpeggio d’alta qualità. A Torino giungevano le eccedenze di burro non utilizzate dai Valligiani (che avevano priorità di acquisto) e destinate ai grossisti ufficialmente riconosciuti, mentre i rivenditori al dettaglio della capitale dovevano necessariamente rifornirsi nella Piazza del Burro.

Nella capitale sabauda, il prezzo del burro era calmierato e veniva fissato ogni settimana dal Vicario del Sindaco. Il listino veniva stabilito in base al prezzo medio a cui il prodotto era commercializzato sulle piazze di Lanzo e di Cuorgnè. Nel 1716, il listino ufficiale del Comune di Torino ordinava ad esempio che il “butirro delle Alpi di Lanzo” e il “butirro di Cuorgnè” venisse venduto a soldi 6 la libbra (pari a 368 grammi). Il prezzo ufficiale poteva variare a seconda della zona di produzione.

Lavorazione manuale del burro nella “zangola”

Tracce di questa Torino antica e delle sue piazze adibite a mercati ancora sopravvivono nella parlata popolare o in certe locuzioni verbali della lingua piemontese. Ma bisogna saperle riconoscere.

Mai sentita l’espressione “Se a l’han rangià  cola dël bur, i rangeroma cò costa!”?
Letteralmente: “Se hanno sistemato la questione del burro, riusciremo a venirne fuori anche da questa situazione”.
Capisco che per chi non è piemontese, nonostante la traduzione in italiano, il significato di questa frase idiomatica possa restare piuttosto criptico. E allora vedo di fornire a questi Lettori qualche informazione sulla sua genesi.

Fino alla metà del Novecento il condimento principe della cucina piemontese è sempre stato il burro. In via subordinata, ma con molto distacco, le massaie e le contadine utilizzavano il lardo, soprattutto nel tardo autunno o in inverno, quando si uccidevano i maiali per fare i salami. Molto meno utilizzato era l’olio d’oliva, alimento tipico della cucina mediterranea, e poco impiegato nella cucina subalpina, se non come condimento crudo per le insalate. Solo dagli anni Sessanta del Novecento si cominciò a far uso dell’olio, soprattutto di quello semi, e per qualche tempo anche della margarina, come surrogato del burro, ma il burro continuava ad essere il condimento preferito nelle cucine del Piemonte. E per certi versi, anche ai giorni nostri, è rimasto prevalentemente così.

Detto ciò, si può capire come i Torinesi di qualche secolo fa avessero accolto con grande preoccupazione la notizia che il burro era diventato in città una merce rara, praticamente scomparsa dal mercato. Che si trattasse di un contingentamento delle forniture da parte dei margari che pretendevano un prezzo meno calmierato del burro (per loro non più remunerativo), oppure che si trattasse di una contrazione della quantità immessa sul mercato per motivi sanitari (peste o altre malattie pandemiche), sta di fatto che per un certo periodo di tempo, giudicato dai torinesi troppo prolungato, il burro divenne introvabile in città, con gran disappunto delle massaie e di tutti i commensali.

Fortunatamente il problema venne risolto, forse con una equilibrata decisione politica, o per una naturale e favorevole evoluzione della situazione sanitaria:  il burro tornò ad essere commercializzato nella piazza appositamente dedicata alla vendita di questo specifico prodotto.

Burro prodotto con tecnica manuale artigianale.

Aver risolto la “questione del burro” significò aver superato una problematica di alta criticità, divenuta insostenibile, e tanta fu la soddisfazione per aver sciolto questo caso, che ne nacque un modo di dire. Quello che abbiamo più sopra riportato.

Molti lo hanno dimenticato, ma c’è chi ancora lo ricorda e continua ad usarlo nei momenti più opportuni, mantenendolo in vita.

Morale: tutto si “arrangia”, afferma la saggezza subalpina: anche la questione più spinosa, come appunto quella… del burro. Basta crederci ed aver pazienza.

Sergio Donna

Sergio Donna

Torinese di Borgo San Paolo, è laureato in Economia e Commercio. Presidente dell’Associazione Monginevro Cultura, è autore di romanzi, saggi e poesie, in lingua italiana e piemontese. Appassionato di storia e cultura del Piemonte, ha pubblicato, in collaborazione con altri studiosi e giornalisti del territorio, le monografie "Torèt, le fontanelle verdi di Torino", "Portoni torinesi", "Chiese, Campanili & Campane di Torino", "Giardini di Torino", "Fontane di Torino" e "Statue di Torino". Come giornalista, collabora da alcuni anni con la rivista "Torino Storia". Come piemontesista, Sergio Donna cura da tempo per Monginevro Cultura le edizioni annuali dell'“Armanach Piemontèis - Stòrie d’antan”.

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