Storie torinesi: le sorelle Arduino, diventate il simbolo d’una strage del marzo 1945
TORINO. Al cimitero Monumentale di Torino esiste un’area denominata “Campo della Gloria. Sacrario della Resistenza” in cui sono conservati i resti di oltre mille caduti, molti senza nome, durante la Resistenza. Fu il Comune che il 21 maggio 1945, decise di realizzare un luogo per non dimenticare. Qui, tra gli altri, sono sepolte due sorelle, Vera e Libera Arduino, la cui storia è legata all’eccidio di una parte della loro famiglia, a cui sono state dedicate una strada e una scuola, e di alcuni conoscenti.
Vera è la primogenita, nasce nel 1926, tre anni prima di Libera, e, come raccontato dal fratello Antonio, sopravvissuto alla strage insieme con un’altra sorella, oltre a lavorare come operaia presso l’industria dolciaria Wamar, militava nella Sap (Squadre d’azione patriottica), e faceva la staffetta tra la Barriera di Milano e i partigiani in montagna. Donatrice di sangue, era allegra, amava cantare, aveva fatto la terza avviamento al lavoro, e, delle due sorelle, era stata la prima ad accostarsi alla politica.
Libera, invece, dopo aver conseguito la quinta elementare, inizia a lavorare presso l’industria meccanica Castagno. Introdotta alla politica dal padre e dalla sorella Vera, partecipa alle attività clandestine del Partito comunista italiano, alla Resistenza, ed entra nei Gruppi di difesa della donna, occupandosi del servizio di assistenza in Barriera di Milano.
Figlie di Gaspare Arduino, operaio alla Fiat, e Teresa Guala, impiegata alla Manifattura Tabacchi, le due giovani vivono con la famiglia nelle case operaie del quartiere Regio Parco, sono ragazze semplici, leggono romanzi rosa, s’innamorano, e trascrivono in bella calligrafia su un quaderno i testi delle canzoni di quel tempo, come testimonia Bruna, l’altra sorella sopravvissuta all’eccidio, morta nel 2015.
La notte tra il 12 e il 13 marzo 1945 la vita della famiglia Arduino cambia per sempre: un commando, guidato dal tenente Aldo De Chiffre, entra con uno stratagemma in casa. «Dopo cena bussano alla nostra porta, al quarto piano di via Moncrivello. È Rosa Ghizzone, con lei ci sono il marito Pierino Montarlo, che aspetta in strada, e altri due uomini sconosciuti. Anche Rosa è una staffetta, dice a mio padre che quegli uomini vogliono andare in montagna con i partigiani, che hanno bisogno del suo aiuto. Pochi attimi, poi i due, appena vedono chi c’è in casa, si rivelano per quello che sono: tirano fuori le armi e ci mettono tutti al muro. Mia mamma Teresa era fuori, sul balcone, e rientrando ci vede tutti con le mani alzate; io, che avevo solo tredici anni, tremavo come una foglia. Allora mi viene vicina, mi prende per i polsi e mi dice: “Stai calma Bruna, non è niente”. A questo punto i due uomini con il mitra fanno uscire tutti lasciando in casa solo me, mia madre e mio fratello Antonio, di sei anni, che era stato messo a dormire nell’altra camera. Portano via mio padre, le mie sorelle, il partigiano Aldo De Carli, che si trovava a casa nostra quella sera, Rosa con suo marito, e l’amico Alberto Ellena, che era venuto a prendere mio padre per portalo a dormire a casa sua, perché in quei giorni il clima a Torino era pesante, e c’era paura che qualcosa accadesse… Ricordo che uno dei fascisti prima uscire di casa si rivolse alla mia mamma dicendole: “Signora non urli, stia calma che noi non facciamo del male”… Non li ho mai più visti. Mia madre li ha cercati per tutta la notte nelle caserme di Torino pensando fossero stati arrestati, invece quella stessa notte vennero uccisi per strada e scaricati in diversi punti della città. Una cugina ci avvisò che i loro corpi erano all’Istituto di medicina legale», raccontava Bruna Arduino in vita.
I funerali vengono celebrati alcuni giorni dopo, non lasciando indifferente la città. I Gruppi di difesa della donna organizzano una manifestazione, in alcune fabbriche si sciopera, e c’è anche una coraggiosa che issa una bandiera rossa sul tetto. «Questa manifestazione – scrive Bianca Guidetti Serra nel suo libro “Compagne” (Einaudi, 1977) – per la data in cui avvenne, per l’adesione che ottenne, per le conseguenze che ne seguirono (un centinaio di arresti), per le finalità cui era destinata, ha assunto, nel ricordo di molte, particolare rilievo. Rappresentava infatti il risultato di un lungo e tenace lavoro condotto per tanti mesi, tendente a unificare la partecipazione delle donne. E le donne vennero e con degli evidenti simboli comuni: mazzi di fiori, corone con scritte, tutte con qualcosa di rosso». Le bare delle giovani sono accolte in ginocchio, i fascisti arrivano con i camion, sparano in aria, arrestano gli uomini presenti, tra cui anche Lorenzo, il futuro marito di Bruna, e le porte del cimitero restano chiuse: solo ai familiari è permesso entrare.
La figlia di Bruna svela che, finita la guerra, i due fascisti responsabili dell’eccidio, pagati 60 mila lire per compiere quella brutale azione, vengono arrestati. Alla guida c’è Aldo De Ghiffre, un giovane studente in medicina, membro dei Reparti anti-partigiani, che, condannato all’ergastolo, esce dal carcere molto prima. Diventato poi medico, incontrerà parecchi anni dopo, Antonio Arduino, il fratello sopravvissuto, che, scioccato, lo riconoscerà durante una donazione di sangue.