Torino assassina: l’uccisione nel 1829 sulle sponde del Po della giovane Maria Riggio
Questa storia inizia il 16 luglio 1829 con il ritrovamento del cadavere della giovane ragazza Maria Riggio sulla sponda sinistra del Po nella regione di Vanchiglia. All’epoca è stato aperto da pochi anni il primo tratto della via Vanchiglia e nella zona non sorgono case: si tratta di un sito malsano e disabitato perché vi si raccoglie l’acqua stagnante in molti canali, dove sono convogliati gli scoli della città. Soltanto dopo il 1844, per impulso dell’architetto Alessandro Antonelli (1798-1888), la Società dei Costruttori di Vanchiglia inizierà una operazione di bonifica della zona e la costruzione di case con la creazione, a poco a poco, di un nuovo popoloso borgo torinese.
In questo squallido contesto di una zona considerata il deposito d’ogni immondizia, viene ritrovato il corpo di Maria Riggio. Le perizie mediche accertano che la ragazza è stata annegata dopo aver subito un violento stupro. Le indagini si concentrano sulla famiglia che ospitava la giovane Maria a Torino da circa un mese, quella di Francesco Porro. Non conosciamo il motivo, ma certo Maria Riggio non era una domestica, sia per il denaro e gli oggetti che possedeva sia per il rapporto di parità con il suo ospite.
Questo Francesco Porro è nativo di Feisoglio, al tempo comune del mandamento di Bossolasco, in provincia di Alba e nella divisione di Cuneo, e residente a Torino, di 32 anni, non appare come una gran brava persona: verrà indicato dagli inquirenti come un individuo di pessime qualità, ozioso, ubriacone («dedito all’ebrietà»), smoderato nelle spese benché senza mezzi di sussistenza, disonesto, mormoratore, e, soprattutto, solito a maltrattare la moglie. Porro, inoltre, ha pesanti precedenti penali, per l’epoca: ha scontato sette anni di galera per insubordinazione militare.
L’uccisione di Maria Reggio viene così ricostruita. Da quando Maria abitava con loro Francesco aveva preso l’abitudine galante di accompagnarla pressoché tutti i giorni alla cerimonia del passeggio serale. I torinesi dell’epoca rinunciano malvolentieri al piacere della passeggiata, che rappresenta altresì una necessità igienica. Anche le persone benestanti vivono in case poco spaziose, i meno agiati occupano il quarto ed il quinto piano delle case se non addirittura le soffitte. Tutti sentono l’irresistibile bisogno di aria e di moto: alla sera, estate e inverno, tutta Torino si riversa nei pubblici passeggi.
Si passeggia nel Giardino dei Ripari (l’odierna Aiuola Balbo ed i giardini Cavour), sul viale del Re (corso Vittorio Emanuele II da Porta Nuova al Po), sui viali che vanno alla Cittadella, sui viali alberati (le «allee») che hanno sostituito le mura abbattute e che portano nomi di santi: di San Massimo (corso Regina Margherita da Porta Palazzo al Rondò dla Forca), di San Maurizio, di Santa Barbara (corso Regina Margherita tra Porta Palazzo e il Po), di San Solutore (corso Inghilterra), di Sant’Avventore (corso Vittorio Emanuele II tra corso Vinzaglio e corso Inghilterra).
Verso le nove pomeridiane del 15 luglio Porro aveva invitato Maria alla solita passeggiata, l’aveva accompagnata fino alla sponda sinistra del Po, gettata supina col capo nell’acqua, stuprata e successivamente annegata. L’omicidio aveva lo scopo di impadronirsi del denaro e degli oggetti che Maria teneva in un baule in casa Porro. In effetti, Porro ha forzato la serratura del baule, ne ha asportato una somma calcolata intorno alle cinquecento lire e più, con alcuni capi di biancheria e vestiti. Porro viene trovato in possesso di oggetti e vestiti di Maria, che sarebbero stati prelevati dal baule forzato e che ora costituiscono significativi corpi di reato.
Per questo omicidio, indicato come «barbaro e proditorio», Francesco Porro viene processato dal Senato di Torino il 12 agosto 1829. Porro non ha confessato ed ha presentato dei documenti in sua difesa in data 11 agosto. Contro di lui è stato ordinato il procedimento ex abrupto.
Il secondo capo di accusa è costituito dalle sue cattive qualità morali. La relazione degli atti è stata predisposta dal conte Placido Nuvoli. I giudici respingono i documenti a sua difesa, poi decidono la condanna a morte. Francesco Porro sarà «pubblicamente appiccato per la gola, sinché l’anima sia separata dal corpo, precedente l’applicazione delle tanaglie infuocate, ai luoghi e modi soliti nell’esser condotto al patibolo. […] Fatto il di lui corpo cadavere manda spiccarsigli la testa dall’imbusto ed affiggersi al patibolo». Dopo tanto incrudelimento, prima e dopo l’esecuzione, sembra quasi grottesco elencare le altre solite pene: l’interrogatorio sui complici, l’indennità agli eredi, le spese. Agli eredi sono anche restituiti i corpi di reato.
La sentenza è eseguita il 14 agosto 1829. All’epoca il patibolo sorge ancora a metà del viale di San Massimo, l’attuale corso Regina Margherita, a metà strada fra il «Rondò dla Forca» e via della Consolata; sarà trasferito al «Rondò dla Forca» nel 1835. Delitto certo ripugnante quello di Porro, ma anche i modi dell’esecuzione della condanna a morte non sono da meno.