Il rito delle “vijà” in stalla nelle rigide sere d’inverno
Negli antichi borghi agricoli del Piemonte, fino a metà del Novecento, alla sera – soprattutto durante le fredde sere d’inverno – si riunivano nelle stalle varie famiglie per le tradizionali vijà (il termine piemontese vijà deriva dal latino vĭgĭliam, che significa: veglia). Erano serate in cui si cantava, si raccontavano storie, si prendevano accordi per la compravendita del bestiame; alcuni suonavano e ballavano, ma senza mai smettere del tutto di lavorare. La vijà era infatti sì un momento di svago, ma al tempo stesso anche di lavoro, e soprattutto di trasmissione del sapere tradizionale.
Ma perché ci si ritrovava proprio in una stalla? Perché le stalle erano ambienti naturalmente riscaldati dal fiato delle bestie: mucche e vitelli, buoi, porci, capre, pecore, anatre e galline. E non c’era bisogno di camini o di stufe supplementari da alimentare con legna da ardere. Le donne si dedicavano soprattutto la lavorazione della lana: facevano le matasse e la dipanavano; altre cucivano o rattoppavano indumenti già logori, ma che potevano ancora essere utilizzati; altre ancora facevano pizzi all’uncinetto. Gli uomini intagliavano il legno e costruivano attrezzi da lavoro; intrecciavano cesti, toglievano le foglie ai rami, creando bastoni che venivano utilizzati per farne utensìli.
Alla vijà partecipavano ovviamente anche i bambini; i più piccoli dormivano nella culla, che la madre faceva dondolare con i piedi, mentre i più grandicelli imparavano i lavori dei grandi, mentre giocavano tra loro e ascoltavano i racconti dei nonni. Di solito, per le vijà, ci si riuniva a turno, una sera nella propria stalla, e un’altra in quella dei vicini o di amici.
Chi arrivava in visita non giungeva mai a mani vuote e portava sempre con sé qualcosa da donare al padrone di casa: un regalo semplice, senza fronzoli, da condividere però tra tutti i presenti: in genere, un salame, una toma, o un fiasco di buon vino, auspicio di una bella cantata, e di una divertente ballata.
Numerose erano le ballate, le monfrin-e e le corente i cui testi venivano cantati senza accompagnamento musicale: molti ballavano semplicemente al suono dei cori dei presenti. Un musicista era un lusso che raramente ci si poteva concedere: era molto più economico usare la voce dei partecipanti alla vijà per intonare una canzone, sulla cui melodia si danzava allegramente. Un’atmosfera speciale avevano le vijà che si tenevano nelle sere che precedevano il Natale, nel periodo dell’Avvento.
Non si rinunciava certo al canto e al ballo sulle note dei brani popolari. Ma c’era sempre qualcuno che intonava almeno un canto natalizio in piemontese (a cui si univano tutte le voci dei presenti). Ad esempio, questo:
Gesù bambin l’’é nato, l’é nato in Betelem,
l’é sopra un pò de paja, l’é sopra un pò de fen.
L’’é sopra un pò de fen, s’a l’é ‘l Bambin ch’a piora
soa mama ch’a lo adora, l’é sopra un pò de fen.
La vijà aveva anche la funzione “sociale” di far incontrare gli sguardi delle giovani ragazze da marito con quelli dei giovani delle vicine borgate… Terminata la vijà, uomini e donne – intabarrati – al lume delle lanterne ad acetilene, facevano ritorno alle loro umili abitazioni o cascine, magari barcollando un po’ lungo la strada, in preda a leggeri fumi dell’alcol. Non ubriachi. Semplicemente “allegri”.