Dal libro di Sergio Donna, i difficili anni in Borgo San Paolo tra il 1922 e il 1945 (prima parte)
Inizia, con questa prima puntata, una serie di articoli tratti dal libro “Venti di guerra in Borgo San Paolo: dal Ventennio alla Liberazione” di Sergio Donna, un documento sullo stile di vita di un quartiere operaio torinese negli anni compresi tra il 1922 e la Liberazione. Il volume, di 40 pagine, è stato pubblicato in collaborazione con l’ANPI, Sezione Dante Di Nanni di Torino con il patrocinio di Ël Torèt – Monginevro Cultura, nell’imminenza dell’Ottantesimo anniversario dal coinvolgimento organizzato delle maestranze delle Fabbriche di Borgo San Paolo nella Lotta per la Resistenza e la Liberazione. Il libro vuole rievocare pagine di storia del territorio che ebbero un’eco e un’influenza determinante sull’intero Paese, e rendere omaggio a tutti coloro che lottarono per la Libertà, prima e dopo l’8 Settembre 1943, nelle fabbriche, nelle strade, e nelle valli piemontesi.
Scrive nel suo libro Sergio Donna:
Proviamo a fare un salto a ritroso nella storia, azionando la macchina del tempo in retromarcia, e immaginiamo di rivivere lo stile di vita in un quartiere operaio torinese di quasi un secolo fa. Sceglietelo voi quel quartiere: l’atmosfera nei borghi di barriera è ovunque quasi la stessa, in Borgo San Paolo, come in Barriera di Milano. Sentite? si può ascoltare, nitido, il rombo del motore di un auto in transito, lo stridio e lo sferragliare di un tram sui binari al centro della via, il concerto di suoni argentini dei campanelli delle biciclette, ed un vociare diffuso, allegro, di adulti e fanciulli, che aleggia per le strade, spesso ancora prive di asfalto. E intanto, quasi come se fosse l’accompagnamento di una sinfonia, giunge da più lontano il tonfo cadenzato delle presse delle fabbriche; e dalle più vicine officine e delle bòite, percepiamo il battito sordo dei magli, a fare da controcanto.
Molte strade di periferia, in quegli anni, non sono ancora ricoperte dai manti di asfalto, per cui è normale che i monelli del quartiere possano giocare in strada, padroni della carreggiata, al pallone, oppure con le biglie di terracotta (bije), lungo i cordoli in pietra dei marciapiedi, laddove questi ci sono. In alternativa alla strada, ci sono gli Oratori come quelli dei Salesiani (don Michele Rua, San Paolo, Valdocco, ecc.) che accolgono i fanciulli del borgo: sono figli di immigrati provenienti dalle Langhe, dal Roero, dal Vercellese, ma anche dal Veneto, dall’Emilia e dal Sud Italia, che hanno deciso di lasciare le loro terre e il loro atavico stile di vita contadino per diventare operai nelle fabbriche della città, nell’illusione che il nuovo lavoro possa essere meno pesante e più remunerativo. Gli Oratori accolgono questi ragazzi soprattutto alla domenica, in un clima gioioso e spensierato.
Ma la gioventù si esaurisce presto nei quartieri di barriera: a parte i pochi fortunati destinati a continuare gli studi, per i più, l’entrata nel mondo del lavoro coincide più spesso con gli anni della primissima adolescenza. C’è poco spazio per il tempo libero, per i fanciulli come per gli adulti. È il lavoro che occupa tutta la giornata: nove, dieci ore al giorno, e si lavora anche di sabato. Per gli operai delle fabbriche ci sono i turni, anche di notte, e il giorno serve perriposare, mica per andarsi a divertire, anche se nei più grandi stabilimenti spesso non mancano i Circoli Sportivi Operai, istituiti all’interno delle fabbriche, per offrire ai lavoratori occasioni di ritrovo, di svago e di socializzazione, ma anche di scambio e di
confronto di cultura politica. E le donne? Le donne, invece, nelle tiepide serate di primavera, si ritrovano con le sedie sotto casa, alla soglia dei portoni: mentre chiacchierano tra loro, fanno crochet, o rammendano i calzini dei mariti, oppure adattano con ritocchi e modifiche, all’ultimo nato, i pantaloni dismessi dal figlio maggiore.
Anche per le fanciulle la vita è dura: al ritorno da scuola, aiutano la mamma nei lavori domestici. Spesso la sostituiscono (se lavora in fabbrica, magari alla Venchi Unica o alla Manifattura Tabacchi, o a servizio di famiglie borghesi o benestanti) nella cura della casa, e badano ai fratelli più piccoli, facendo le veci dei genitori, con un prematuro senso del dovere e di responsabilità. E imparano presto l’arte del rammendo e del ricamo e tutte le funzioni dell’economia domestica. È ancora la famiglia ed il lavoro, fino all’avvento del fascismo, il fulcro della cultura operaia di quartiere; e la donna, per quanto giovanissima, viene cresciuta alla luce di questi valori, ed istruita a farsene portatrice e custode.
I quartieri hanno sempre costituito una sorta di microcosmo sociale a sé, collocato in uno spazio circoscritto e raccolto, con precisi punti di riferimento, tutti compresi all’interno dei loro confini (la Chiesa, i mercati rionali, le piazze e i sagrati per i ritrovi domenicali; le piòle e il Circolo Socialista per i momenti di relax, di socializzazione e di confronto; la fabbrica o la bottega, in cui si lavora e ci si gratifica professionalmente; gli amici del caseggiato e dell’isolato in cui si vive; gli amici e i conoscenti del quartiere; e, soprattutto, la famiglia). La città resta un’entità vaga, separata, lontana, persino un po’
inquietante, ed è per questo che “Torino”, la città-centro, appunto, non compare mai, o quasi mai, almeno con citazioni dirette, nei dialoghi e nella vita concreta dei torinesi di borgata. “I vad a Turin” (Vado a Torino) si diceva, quando dai quartieri di barriera ci si recava in centro città. La cinta daziaria è stata abbattuta nei primi anni Venti, ma di fatto le borgate tendono a restare delle “barriere”, cioè dei satelliti, socialmente, culturalmente, e persino politicamente, distaccati.
Nella stessa omogenea cultura sociopolitica dei quartieri popolari e periferici, in quegli Anni Venti del Novecento, si identificano, oltre alle famiglie dei lavoratori nelle fabbriche, anche gli impiegati amministrativi che lavorano negli uffici delle stesse, e i numerosi piccoli commercianti o artigiani, e persino gli intellettuali dell’epoca, che nel quartiere sono nati o risiedono. Un’adesione trasversale, che coinvolge classi sociali lavoratrici diverse, laici e cattolici, e le unisce in un socialismo basato sulla solidarietà, sul sostegno reciproco, nonché sulla compatta coesione di tutte le forze lavoratrici, con
l’obiettivo di un riscatto finale, sociale ed economico comune, ma che resta ideale, e proprio per questo, da molti giustamente definito “utopico”.
Segue nei prossimi articoli pubblicati su questo quotidiano on line
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