Vezzolano, la canonica che la leggenda vuole fondata da Carlo Magno
Itinerario nell’Astesana per gustare il Nebbiolo di Albugnano e per farsi contagiare dal fascino della costruzione di Santa Maria, già menzionata in un documento del 1095
Tra i morbidi declivi dell’Astigiano, al fondo d’una valle appartata nei pressi del paese di Albugnano, sorge un capolavoro del Medioevo piemontese, la canonica di Santa Maria di Vezzolano, già menzionata in un documento del 1095. Il complesso canonicale, nato dall’iniziativa di un consorzio di famiglie signorili, tra cui i Radicata e i San Sebastiano, appare oggi circondato da fitti boschi alternati a terreni tenuti in prevalenza a vigneto.
Accanto alle uve tradizionali dell’Astesana, quali Barbera e Freisa, su queste colline comprese nei comuni di Albugnano, Castelnuovo Don Bosco, Passerano Marmorito e Pino d’Asti, si coltiva un vitigno, il Nebbiolo, che oggi in Piemonte è legato soprattutto al distretto vinicolo delle Langhe e del Roero, alla fascia settentrionale tra Alto Canavese, Gattinara e colline novaresi (dove è noto anche come Spanna) e la conca ossolana (qui si produce il Prunent, un Nebbiolo di montagna), ma che un tempo era assai più diffuso, tanto da spingersi nel cuore dell’Astigiano ed essere citato come gloria locale nel celebre trattato pubblicato nel primo Trecento dal giudice e agronomo bolognese Pier de’ Crescenzi. Nel testo si cita l’uva nera detta nubiola (il Nebbiolo), celebrandola come “molto lodata nella città di Asti e da quelle parti” e che fa “ottimo vino da serbare”. Tale menzione non solo documenta la produzione in loco del Nebbiolo, ma dimostra come nei secoli si sia modificata la geografia del vigneto piemontese.
L’avanzata del Barbera e il suo affermarsi già dalle prime decadi dell’Ottocento come varietà dominante nelle terre astigiane e monferrine avvenne dunque a discapito del Nebbiolo, che resistette però sul “fronte” delle valli Belbo e Tiglione e nelle zone occidentali, in particolare tra Castelnuovo Don Bosco e Albugnano, dove la sua coltivazione è tuttora praticata e dà origine alla Doc Albugnano. In base al disciplinare l’Albugnano si ricava da uve Nebbiolo in concorrenza con un massimo del 15% di altre varietà a bacca nera tradizionali dell’area, Barbera, Bonarda, Freisa. Come forma di riconoscimento di una presenza tradizionale, che non è mai scomparsa dal Monferrato e dall’Astigiano, nel settembre 2018 è nata una nuova Doc, il Monferrato Nebbiolo, che riguarda oltre 200 comuni tra le province di Asti e Alessandria.
Due le principali ipotesi sull’origine del nome Nebbiolo, derivato dal vocabolo nebia, nebbia: la prima lo collega al tempo della vendemmia, che si effettua tardivamente rispetto ad altre varietà, tra il principio e la metà di ottobre, quando le brume autunnali avvolgono le colline, la seconda alla presenza di uno spesso strato di “pruina”, sostanza cerosa di colore grigiastro, tale appunto da evocare la nebbia, che si forma sulla buccia dell’acino per proteggerlo dalla disidratazione e da attacchi batterici.
Vigneti e boschi avvolgono dunque d’un caldo abbraccio l’antica canonica di castello, Santa Maria di Vezzolano, dove storia e leggenda si fondono chiamando in causa addirittura uno dei padri fondatori dell’Occidente cristiano, Carlo Magno, Rex Francorum e imperatore, che la tradizione indica come fondatore del luogo di culto.
La tesi carolingia è stata smentita dagli studiosi, ma si basava su alcuni indizi facilmente rintracciabili visitando il complesso. Il primo indizio si trova nel polittico in terracotta policroma appoggiato all’altar maggiore. Di fattura tardo-quattrocentesca raffigura la Vergine affiancata a destra da Sant’Agostino e a sinistra da un monaco o eremita, forse San Macario, nell’atto di presentare alla Madonna una figura inginocchiata con abiti e insegne regali.
Il personaggio esibisce gli emblemi della monarchia francese, in particolare il giglio araldico, che compare sia sul manto indossato, azzurro seminato di gigli, sia sullo scudo ai suoi piedi, recante tre gigli dorati in campo rosso. Già questo dettaglio appare impreciso perché lo sfondo dell’arme dovrebbe essere azzurro e non rosso: per alcuni studiosi lo scambio cromatico è frutto di un errore, ma altri, come il Marchisio, vi riconoscono l’antico stemma di Vezzolano.
La figura in ginocchio, che i fautori della tesi carolingia pretendevano di identificare con il re dei Franchi, non è però Carlo Magno, bensì Carlo VIII, sovrano francese che transitò in Piemonte tra 1494 e 1495 e che, con ogni probabilità, donò l’opera ai canonici di Vezzolano. D’altronde Carlo Magno, morto nell’814, non avrebbe potuto esibire né il collare di San Michele, indossato dalla figura, emblema di un ordine dinastico fondato nel 1469 al tempo di re Luigi XI, parecchi secoli dopo la morte del re dei Franchi, né il giglio araldico, che si affermò nell’emblematica di corte francese solo nel XIII secolo.
Il secondo indizio si trova nel chiostro: qui, all’interno di un ciclo di affreschi risalenti al XIII e XIV secolo, è ripetuta una scena raffigurante un cavaliere, scortato da due accompagnatori, nell’atto di coprirsi il volto con le mani, atterrito dalla visione di tre scheletri emersi dalla tomba. Carlo Magno soffriva di epilessia e nella positura del cavaliere in primo piano, in procinto di cadere da cavallo, si potrebbero riconoscere i sintomi di un attacco del morbo. In realtà, l’affresco propone uno schema pittorico diffuso nel Medioevo, il “Contrasto dei tre vivi e dei tre morti”, con intenti pedagogici: gli scheletri ammoniscono i tre cavalieri a cambiare vita, per salvarsi dalla dannazione.
I misteri di Vezzolano non finiscono qui: il tramezzo che taglia la navata centrale racchiude altri enigmi, legati sia alla funzione dell’elemento architettonico che all’apparato scultoreo. Nelle chiese altomedievali strutture simili delimitavano uno spazio, detto endonartece, riservato ai catecumeni, non battezzati, e ai penitenti pubblici, mentre nel gotico francese lo jubé, derivato dall’iconostasi bizantina, separava la zona dell’altare o il coro dal resto della chiesa. La risposta al quesito potrebbe trovarsi nella natura originaria dell’edificio, una canonica di castello, sorta dall’iniziativa di un gruppo di famiglie consortili: si ipotizza che nel vestibolo trovassero posto i villici, residenti nel poderium, che rimanevano così separati dai canonici e dai membri della nobiltà locale.
Passiamo all’apparato scultoreo. Le figure inserite nella fascia superiore del tramezzo sono suddivise in due registri: in alto è protagonista la Madonna, con al centro l’Incoronazione, a sinistra la Dormitio e a destra l’Ascesa al cielo, mentre il registro inferiore ospita la serie dei trentacinque antenati della Vergine, che reggono in mano un cartiglio con il nome, i patriarchi pastori con il berretto frigio e i patriarchi re con la corona. Gli antenati della Madonna, però, sono quaranta. E i cinque mancanti? Li troviamo dipinti a lato del bassorilievo.
Da queste osservazioni sorgono le domande: l’opera è stata realizzata altrove, in seguito trasportata a Vezzolano e, quindi, “tagliata” per adattarla allo spazio? Oppure, quando si costruì l’ala nord del chiostro eliminando la navata destra, si accorciò il pontile, sacrificando cinque sculture, poi sostituite dalle immagini dipinte? C’è chi propone una terza spiegazione: da sinistra verso destra gli spazi fra una figura e l’altra si restringono progressivamente. Forse l’autore fece male i calcoli e, alla fine, fu costretto a lasciar fuori cinque patriarchi, dipingendoli sul muro.
Anche l’assenza della navata di destra, la cui esistenza è solo suggerita dalla tripartizione della facciata, è fonte di discussione: alcuni ritengono che la chiesa sia stata pensata così sin dall’inizio, altri ipotizzano invece che sia stata eliminata nel XIII secolo nel corso dei lavori che diedero l’aspetto attuale al complesso, comportando un ingrandimento del chiostro per far spazio alle tombe del sepolcreto gentilizio.
L’architettura e la disposizione della canonica di Vezzolano dimostra infine come le chiese medievali venissero progettate sulla base di complessi calcoli matematici e misurazioni astronomiche. Non solo la chiesa è “orientata”, con l’abside rivolta ad est, verso la Terra Santa, origine del Cristianesimo, ma è studiata con attenzione la presenza della luce, che la teologia medievale considera emanazione di Dio. Due volte l’anno, i raggi solari, penetrando attraverso la bifora della facciata, illuminano le statue appoggiate al finestrone dell’abside, raffiguranti l’Annunciazione. L’effetto non è casuale, ma voluto dai costruttori, che progettarono la chiesa in modo tale da generarlo.